Amiche di sangue, di Cory Finley

Inscrivendosi nel filone del disagio adolescenziale, Finley si limita a un procedimento interessato unicamente all’eccesso di significazione e al disinnesco di ogni possibile tensione emotiva

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Per misurare i danni provocati da quel cinema anestetizzato e anestetizzante di cui si è fatto paladino Yorgos Lanthimos e che, in un programmatico lavoro di neutralizzazione di ogni possibile deviazione emotiva, si riduce ad un onanistico rigore mortifero, cucito come un abito su misura per farsi prodotto da festival, basta andarsi a guardare Amiche di sangue, non a caso acclamato lo scorso anno al Sundance. Inscrivendosi, almeno sulla carta, nel filone del disagio adolescenziale, genere esplorato con ben altre profondità da film come Schegge di follia, Cory Finley, autore teatrale alla sua prima prova cinematografica, porta sul grande schermo uno script inizialmente pensato per il palcoscenico. Amiche di sangue racconta il rapporto malato, che gira intorno alla progettazione di un omicidio, tra due ex compagne di scuola, Lily, figlia viziata della upper class con una relazione difficile con il patrigno, e Amanda, affetta da un disturbo che la rende incapace di provare emozioni e sentimenti, che ritrovano la loro amicizia dopo l’uccisione a sangue freddo del proprio cavallo compiuta da quest’ultima.

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I termini dell’operazione sono quelli di un chirurgico processo di svuotamento, come è chiaro fin dalle prime sequenze del film, con l’Amanda di Olivia Cooke, costretta a farsi presenza fastidiosa e inquietante, così viene definita da Lily, che apre il racconto imprigionando da subito lo sguardo in un’estetica raggelata, proprio come la sua incapacità di sentimento. Ma anziché penetrare sotto la pelle di quei corpi, la malattia di Amanda e il disagio trasformato in crudeltà di Lily, frutto di una distorsione sociale, la upper class ritratta come luogo della disumanizzazione, Finley non fa altro che replicare, per tutta l’estenuante durata di Amiche di sangue, un procedimento interessato unicamente all’eccesso di significazione e al disinnesco di ogni possibile tensione emotiva, costringendo le povere Olivia Cooke e Anya Taylor-Joy a muoversi come fossero dentro una gabbia di criceti.

Il risultato è un film dal chiaro intento di condanna, con la sua facile presa di posizione morale, che si veste di cinismo, il disprezzo continuamente esibito nei confronti del bestiario umano che lo abita, come vezzo estetico del tutto fine a stesso e dove la ridondanza degli eccessi esplicativi su cui si poggia la struttura narrativa non solo affoga la tensione nella letteralità, ma mostra anche tutta l’inesperienza di Finley, troppo vicino alla verbosità teatrale per riuscire a liberare, come invece vorrebbero farci credere le sue pretese autoriali, la potenza dell’immagine. In una solipsistica partita a scacchi, dove ogni mossa è già stata decisa in partenza, a sfuggirgli di mano è miracolosamente solo la presenza di Anton Yelchin, ma l’ultima interpretazione dell’attore prima della prematura morte è davvero troppo poco per insufflare anche solo un alito di vita nella materia irrimediabilmente irrigidita del film, Finley si limita a levigare, fino all’inerzia, una superficie che non ha proprio nulla di sovversivo o provocatorio e di cui, francamente, il cinema non ha alcun bisogno.

 

Titolo originale: Thoroughbreds
Regia: Cory Finley
Interpreti: Anya Taylor-Joy, Olivia Cooke, Anton Yelchin, Paul Sparks, Francie Swift, Kaili Vernoff, Svetlana Orlova, Celeste Oliva
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 92′
Origine: USA, 2017

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