Andrea Pazienza: e ringrazia che ci sono io, che sono una moltitudine

Trent’anni fa moriva il fumettista Andrea Pazienza che ha dato i natali a Penthotal, Zanardi e Pompeo, raccontando se stesso e una generazione, disegnando il contrasto fra caos e semplicità

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Segno disegno dove sei? 

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Il 16 giugno 1988 Andrea Pazienza lasciava la terra e i fogli bianchi, e andava a finire chissà dove, si spera in un universo di segni e disegni. Magari a combinar disastri con Zanna, Colas e Petra, come già accadeva in Zanardi. La prima delle tre, dove Paz e Zanardi si incontravano, si odiavano e si azzuffavano, e dopo che Zanardi aveva la meglio (il disegno è più potente) finivano a zonzo insieme.

Muore giovane chi è caro agli dei. Diceva bene Menandro scrivendo di Achille, e di fronte alle opere del fumettista italiano questo non può che essere il primo pensiero e cioè che Pazienza era davvero caro agli dei. È stato Milo Manara a dire che quando ti trovavi al cospetto di quel giovane folletto che creava, se eri anche tu un disegnatore, non potevi non provare un iniziale odio improvviso. Tavola dopo tavola, storia dopo storia, nei lavori di Paz, Pazienza, Andrenza, o tutti i mille nomi con cui si firmava ogni volta, c’era una vera e propria schizofrenia…Un autore abitato da più autori che produceva segni perfetti, che cambiavano in continuazione e lo facevano in fretta, anche in un’unica vignetta o subito dopo in quella accanto, impossibilitati a star fermi sul foglio. Spesso le linee di Pazienza scoppiano il riquadro, oppure lo sfruttano fino ad esaurire lo spazio, non tengono, esplodono, sono disordinate e perfette nella loro asimmetria, come se fossero frutto di un flusso improvviso, di un bisogno impellente del momento che è al tempo stesso naturalmente disciplinato, elegante, senza sforzi né fatiche.

Tutto è colmo e caotico ma non per questo sciatto. Vita, molta vita, lo sguardo di Paz è sempre stato ingordo, e certo è che non si può contenere tutto e tutto insieme, reggere quel caos che al contempo è così semplice. Esattamente come ci confessava in quella vignetta così essenziale, quella dove il padre spiega al figlio il mondo indicando una stella, poi un fiore e infine lo spazio della notte, chiedendogli di tenergli stretta la mano, perché si sente le gambe molli.

Succede che in Penthotal il protagonista è esplicitamente Andrea, osservatore insaziabile di tutto quello che gli succede attorno: Bologna e il glorioso 1977. Il fermento è tanto, Pazienza è doppio, è coinvolto e al contempo è estraneo, è dentro e fuori dal movimento studentesco. Le tavole sono piene, in questi riquadri si fa fatica a trovare il centro, l’ordine non è neanche concepito, il linguaggio è incontrollato, sporco, misto, difficile da seguire. Se lo si vuole capire questo autore, occorre iniziare quel viaggio con lui, abbandonarsi al tratto per poi trovare il senso, che è potente e urgentissimo, proprio come il movimento studentesco di quel periodo di fuoco. È un fumettista impaziente questo Pazienza, La pazienza ha un limite, Pazienza no, come ci tiene a specificare.

Andrea, non riesce a stare fermo, su molte inquadrature ha dei ripensamenti, la foga è inarrestabile, rattoppa i riquadri con altri pezzi di carta, monta altre parole e altri segni su segni già precedenti di cui non è contento. Stare fermi è uno spreco, il foglio bianco è una stanza da riempire in continuazione. Così Bologna, le vicende piccole e grandi, le droghe e i relativi viaggi, una moka che gorgheggia in una casa di studenti, chissà cosa è successo la notte prima… Si legge come marchio TraumFabrick Produktion, collettivo di fumettisti e disegnatori pazzi, fra cui ci sono anche Tanino Liberatore e Stefano Tamburini, quelli di RanXerox, il robot nato da una fotocopiatrice, figlio di un tecnica che non si era mai vista prima,  manipolare il disegno scuotendolo sotto la fotocopiatrice. Torturare e ferire la carta. Renderla terreno di guerra. I ragazzi sono inarrestabili, dei veri punk del fumetto, irrispettosi di ogni regola, sempre cattivissimi e pronti a invadere le riviste con storie folli e con vignette, come fosse una lotta, anzi senza come fosse, quella era una lotta, per  conquistare lo spazio, per fondare un territorio dove dare voce a una generazione.

Che poi in quegli anni nasce la rivista Frigidaire sulla quale viene alla luce un mostro, Massimo Zanardi, personaggio spigoloso, con gli occhi fini e il naso troppo aguzzo. Individuo sgradevole a prima vista e ancora non l’abbiamo conosciuto bene…Lo spirito del ‘77 è sfumato, siamo negli anni 80, i valori cambiano, si spengono, in un certo senso si spompano e si riempiono del vuoto lasciato dagli anni del movimento. Arriva in Italia l’eroina, droga sconosciuta, che appiattisce ogni spinta vitale. Zanardi è vendicativo e malefico e insieme ai suoi due compari, Colasanti e Petrilli, compie gesta inenarrabili che ci fanno inorridire. Uccide e tortura animali, pianifica per divertimento incesti fra fratelli e sorelle, approfitta dei sentimenti puri degli altri.

Appiattendosi i valori, si conformano anche le inquadrature, che solo in apparenza diventano convenzionali e raccontano un vuoto che è comunque colmo di se stesso. Zanardi infatti è un cattivo ma è anche un buono che piange per la morte di Petrilli, destinato a risorgere, perché questo sulla carta è possibile. Pur se in un secondo momento, il segno impazzisce anche qui, ma come un ordigno carico pronto ad esplodere, un segno psicopatico quanto i personaggi che sta forgiando, che non erompe mai se non quando improvvisamente diventa colore, acquarello, Pantone superbamente usato, strato su strato, cambio di luce su cambio di luce. È evidente che Pazienza è un autore che incarna, senza troppo pensiero come i grandi artisti, un compito impossibile e sopraffino, riunire tramite segni il racconto di una generazione.

E chissà cosa avrebbe raccontato oggi. Chissà come avrebbe testimoniato, ormai sessantaduenne, l’Italia di ora, con la sua ingombrante vecchiezza e con i suoi pochi giovani. L’Italia degli italiani che in una delle sue vignette cantavano Battisti in trincea, sotto le orecchie incredule dei tedeschi. L’Italia di Pertini con cui Pazienza andava a fare il partigiano, combinando solo guai.

Ma di nuovo lo sguardo è troppo pieno, la vita per il giovane Paz si fa insostenibile, gli amori finiscono, gli amici muoiono, l’eroina seda le mancanze, ridimensiona questo mondo che scoppia di dettagli tutti da raccontare, tramite disegno, tramite linguaggio. Ora bisogna lasciare Bologna e Roma, abbandonare le città, e andare a Montepulciano. È lì che nasce Pompeo, l’ultimo personaggio davvero importante di Pazienza, alter ego triste, lunga confessione e testamento artistico, lavoro fatto su un quaderno a quadretti e non su F4, forse proprio a testimoniare l’urgenza di tenere un diario, presuppongono i critici. Per Pompeo la vita è così grossa, così ricca, una cascata insostenibile. Lo dice il ragazzo a TopolinoUn futuro…Puah, mi affatica il solo pensiero…
Il disegno si affievolisce, l’inquadratura è meno precisa nei dettagli che sono scomposti e deformi. Irregolari come quando si è troppo tristi e ci si guarda allo specchio. La città, per Pompeo, diventa un congelatore pieno di bistecche. Angolature perfette, sfondi bui per raccontare Pompeo, e basta il fondo di una lattina, una siringa, un residuo di limone e una dose in un po’ d’acqua e ti saluto malinconia. Perché quando ci si fa, ci insegna Pompeo, tutto torna più splendente di prima e ci spiega anche la triste alternativa della quotidianità, anticipando il famoso monologo di Mark Renton in Trainspotting.

Scrive molto di più Pazienza in Pompeo,  accantonando gli allegri giochi di parole. Il disegno è schiacciato dal peso delle lettere che non hanno nulla da invidiare alle poesie più meravigliose. Al pari di ogni grande opera Pompeo restituisce un velo trasparente, il colore impercettibile del dolore.  Pazienza è lontano da Bologna, il passato appare idilliaco. Come può anche solo pensare il presente di reggere il confronto? Ma se succede qualcosa torno, torno, dice il fumettista ventottenne a Red Ronnie, in un’intervista arrabattata. Perché della vita non ci si può perdere nulla, occorre testimoniare gli avvenimenti, insistere sui dolori se necessario, registrarli su carta, seguendo il montaggio folle di sguardi e di accordi, e scoppiare se necessario, ma non perdere nulla, non lasciare andare mai.

Che poi registrare tutto è impossibile, vivere tutto è impossibile, finisce che ci si riempie troppo e l’unico modo per sopravvivere è sedare, smorzare un po’, gettare acqua sul fuoco. Pazienza in Pompeo disegna un albero, deforme e che scoppia di forme. A guardarlo bene può essere solo un ulivo, l’ulivo che rappresenta la casa e le radici, che nel caos possono essere una buona ancora. Cita un pezzo di un poema di Pasternak: imparentati con tutto ciò che esiste, convincendosi, frequentando il futuro nella vita di ogni giorno, non si può non incorrere alla fine come in una eresia, in una incredibile semplicità. Quella che non tranquillizza ma atterrisce. Che è ancora quella della stella, del fiore, della notte. Quella che ti fa le gambe molli.

 

 

 

 

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