Andrzej Wajda: sempre nella dialettica della storia

Mancherà Andrzej Wajda come mancano gli altri grandi registi europei che ci hanno lasciato non solo il ricordo del loro cinema, ma la lezione umana della loro vita

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È per sua natura un po’ silenzioso il cinema polacco, ma ha dato molto al mondo, ha sparso con sapienza la naturale grazia dello sguardo (Kieslowskij), ha raccontato le inquietudini e le passioni delle età (Polanski), ha sperimentato i nuovi linguaggi dell’immagine (Rybczyński), ha offerto la visione conciliante della vita (Zanussi), ha raccontato la trasgressione (Borowczyk e Zulawski) e poi gli altri registi che hanno arricchito il panorama mondiale (Holland, Stuhr, Munk, Has solo per citarne alcuni) e poi c’è chi tra gli autori generazionepolacchi, come Andrzej Wajda, che ha sempre raccontato la memoria e anche la memoria breve della contemporaneità. Wajda, scomparso lo scorso 9 ottobre, aveva 90 anni e nella sua lunga vita da regista, era stato spesso costretto a lavorare nel silenzio, contro le strettoie di una censura invadente. Forse per questa ragione il suo cinema aveva, soprattutto negli anni dei mutamenti epocali dell’Europa, partiti proprio dalla Polonia, un che di sottilmente rabbioso, un tono di austera dignità nel rispetto di una memoria ricca e piena di fiducia nel futuro e quel sordo rancore coltivato per un presente che aveva tradito ogni attesa.

i-dannati-di-varsaviaAndrzej Waida, formatosi artisticamente nella Scuola nazionale di cinema di Lodz, luogo mitico e irripetibile come vivaio del fermento culturale che accompagnava l’affermarsi del cinema dell’est degli anni ’50 e seguenti, ha forse meglio di altri incarnato lo spirito del suo Paese. È rimasto un regista polacco, a tutto tondo, nel bene e nel male, forse rinunciando volutamente a quella internazionalità della narrazione, con un suo abbandono o almeno un’alternanza, rispetto alle vicende storiche del suo Paese che hanno costituito, invece, il sostrato del suo cinema. Ma Wajda, nonostante questo era un regista dicenere-e-diamanti levatura internazionale, i temi della sua opera restavano universali e sebbene in una differente ipotesi questa apertura gli avrebbe permesso di essere compreso dovunque e comunque, diversamente altri suoi illustri connazionali (Kieslowskij, Polanski soprattutto), preferì in primo luogo essere compreso dal suo popolo. In una intervista del 2014 curata da Andrea Tarquini ha rimarcato proprio questa percepibile verità: Giro sempre per il pubblico polacco, non conosco abbastanza il pubblico di altri paesi. Così il suo cinema visse fasi alterne di presenza e assenza dagli schermi europei e internazionali in genere. Negli anni ’80, dopo l’onda samsonlunga del cinema dei decenni precedenti che aveva visto il fiorire di una vera e propria nouvelle vague polacca, accompagnata, qui in Italia da una diffusione non trascurabile di quel cinema attraverso , soprattutto, il circuito culturale, culminato con una bella e densa retrospettiva proposta dal Festival di Torino nel 1988, le opere di Wajda arricchivano il panorama del cinema dell’est così sconosciuto, ma affascinante. Il suo era un cinema politico e meditato, frutto di una naturale propensione artistica. Opere che traggono la loro forza da una solida cultura delle arti visive del loro autore e con una struttura fondata spesso su forme espressive plurime o linguaggi e codici differenti. Era la scuola del cinema dell’est della quale Wajda ha fatto parte a pieno titolo e con tutti gli alti e bassi di ogni artista, ha segnato e lasciato comunque una traccia indelebile nella storia del cinema del 900.
Era nato nel 1926 e apparteneva ad una generazione che aveva vissuto, nel pieno della sua evoluzione artistica il rinnovamento del cinema europeo attraverso il vento della (delle) nouvelle vague che attraversavano l’Europa della fine degli anni ’50. Il suo atteggiamento critico verso quel cinemaceneri-sulla-grande-armata così legato ad una necessità espressiva personale che metteva in discussione anche le forme produttive, non poteva trovare il consenso del regista polacco, così legato culturalmente alla storia del proprio Paese. In effetti il suo percorso da regista ha, sin dalle prime battute, fissato alcuni punti fermi. Il suo sarebbe stato un cinema che avrebbe guardato alla barbarie dei totalitarismi, contro ogni guerra e ogni repressione, primariamente segnato dalla centralità dei diritti dell’uomo e dalla libertà innanzi tutto. Nel contempo i temi dominanti della quasi totalità dei suoi film sono immersi in una cornice storica indissolubile dall’intreccio narrativo. Questo sguardo sulla storia, il-bosco-di-betullesoprattutto, se non esclusivamente polacca, vista in un’ottica di vincitori e perdenti, di tirannia e ribellione, sarà il filo conduttore della sua parabola artistica, salvo alcune digressioni.
Questi temi trovarono immediato riscontro nei suoi primi film che attingevano proprio alla storia recente della Polonia sottomessa all’occupazione nazista. La trilogia della generazione perduta avrebbe restituito un profilo della Polonia di quegli anni e soprattutto di quella incapacità dei polacchi di sconfiggere sul terreno bellico, nonostante la resistenza, l’occupante nazista. Il primo dei tre film fu Generazione (1954), cui seguì I dannati di Varsavia del 1957 e Cenere e diamanti del 1958 che resta forse il suo film più famoso di quei primi anni. Un film lacerante che guarda dentro le ferite lasciate dalla guerra. Cenere e diamanti ha imposto Wajda all’attenzione del mondo, aveva all’epoca 32 anni e aveva vissuto quelle vicende e sentiva il bisogno di raccontarle. Samson del 1961 e Ceneri sulla grande armata del 1965paesaggio-dopo-la-battaglia trasformano in racconto l’epica della resistenza al nazismo e ad ogni totalitarismo. La fuga di un ebreo dal ghetto e il lungo racconto delle campagne napoleoniche sono al centro delle vicende narrate in questi due film. Anche con Tutto in vendita (1968) Wajda riafferma l’attenzione al mito moderno dotato di comune umanità, ma segnato dal destino. Un cinema quindi sempre volto a raccontare i temi della guerra dentro una inseparabile cornice della dialettica storica. Nel 1970 Il bosco di betulle segna una discontinuità e Wajda guarda, forse per la prima volta, con una assoluta intensità ai sentimenti. Lo spirito vitale che pervade il protagonista a pochi mesi dalla sua morte a causa di una grave malattia contrasta con l’incapacità del fratello vedovo a godere delle cose della vita.
le-nozzeDue film contigui segnano l’inizio degli anni ’70 e il loro specifico peso, nei fatti polacchi dai quali sono in qualche modo ispirati confermano la lucidità di Wajda nell’affrontare i temi della storia della Polonia e di trasferire nei suoi film quell’inquietudine sociale di intolleranza al comunismo repressivo che ha sempre covato tra le pieghe del lavoro intellettuale e di quello operaio. Paesaggio dopo la battaglia (1970) e Le nozze (1972) sono due film che traducono il desiderio di trasferire queste vicende nei racconti per immagini. Il primo su un terreno più realistico, racconta di un amore tragico tra un intellettuale e una giovane donna scampati all’orrore dei campi di sterminio tedeschi, il secondo su un piano più metaforico è il racconto di una festa nuziale che diventa occasione per rivangare i miti polacchi e scoprirne l’illusoria consistenza. Si tratta di un passaggio cruciale per il cinema di Wajda che acquisisce con queste due opere una solidità artistica che dimostrerà nel prosieguo.la-linea-dombra
Nello stesso anno e dopo La linea d’ombra (1976), tratto dal romanzo di Conrad, scrittore d’origine polacca, Wajda avrebbe diretto il film che lo avrebbe definitivamente consacrato tra i grandi registi europei. L’uomo di marmo è un film cruciale e composito, con una struttura multipla su tre livelli narrativi: il presente, i documentari d’epoca e i flashback del passato di Mateusz Birkut lo scomodo operaio degli anni 50 ed eroe del lavoro di cui Wajda ricostruisce la vicenda umana e politica attraverso l’espediente narrativo della regista che deve fare un film sulla sua vita. Un film in qualche modo monumentale che accanto alla ricostruzione del personaggio, all’atteggiamento critico verso il passato in quella prospettiva dialettica di cui si diceva, racconta anche alla metamorfosi del personaggio che fa da trait d’union tra quel passato e il presente. È la regista Agnieszka a prendere coscienza a cambiare il proprio sguardo, perfino alcune opinioni. In questo film Wajda riassume splendidamente le incertezze del presente e la retorica del passato. L’uomo di ferro del 1981 è l’ideale prosecuzione di quell’originario progetto e vede questa volta come protagonista un giornalista, ma ricompaiono alcuni personaggi del film precedente tra cui la stessa regista Agnieszka. Il luomo-di-marmogiornalista deve indagare sulla situazione dei cantieri navali di Danzica dove da tempo è in atto uno sciopero degli operai. Il film quindi entra in quel coacervo di tensioni politiche e cesure della storia europea e non ultimo il pontificato di Woytila, che hanno caratterizzato la storia del nostro continente negli ultimi decenni. Ma in primo luogo il film partecipa alla storia occupandosi di quel nodo sociale che è stato la nascita di Solidarność e della sua missione politica volta a canalizzare il dissenso. Un percorso che si sarebbe completato da li a poco con un ribaltamento del regime. Wajda si sarebbe schierato precisamente e decisamente da una parte e anche la sua successiva attività avrebbe confermato queste sue posizioni. Ma L’uomo di ferro non ha lo stesso impatto del primo film e risulta forse viziato da una partigianeria che fa perdere di vista a Wajda quella posizione dialettica nei confronti della storia che è anche prova di uno sforzo intellettuale non secondario.
Nel 1979 avrebbe realizzato Il direttore d’orchestra nel quale si intrecciano critica sociale e ricordi personali, il ruolo dell’arte. Un film che conferma, ma non incanta che pare perfino frettoloso nello giungere ad alcune ormai troppoluomo-di-ferro rimarcate conclusioni di natura politica.
Con Danton, 1982, Wajda si confronta con una vicenda storica non polacca, ma sempre dentro lo sviluppo dei temi della libertà e dei diritti negati. La storia di Danton, interpretato da Gerard Depardieu, il rivoluzionario che voleva la pace dopo la sanguinosa rivoluzione francese, racconta ancora una volta di un personaggio ferito dagli avvenimenti storici e in quella logica critica che ha attraversato il suo cinema migliore.
L’attività di Wajda è proseguita con una riduzione, nel 1988, del romanzo I demoni con Dostoevskij – I demoni, per arrivare a Katyn nel 2007, ma nel tempo intermedio il suo lavoro è proseguito anche con lavori di non fiction sempre aventi come tema i fatti storici. Ma è con Katyn che Wajda ha katynritrovato la notorietà. Il massacro della foresta di Katyn è stato un terribile episodio della tirannia staliniana contro civili e militari polacchi. Tra le migliaia di persone massacrate dalla violenza degli uomini del tiranno anche il padre di Wajda il che conferisce ulteriore valore alla drammaticità del film che ancora una volta si confronta con la storia.
Sembrava che Wajda avesse chiuso la carriera nel 2013 con il film su Lech Walesa il leader di Solidarność, Walesa – L’uomo della speranza, ma sappiamo che il Festival di Roma renderà omaggio al regista polacco con la sua ultima fatica andrzej-wajdaAfterimage un film che, per l’ultima volta mette a confronto un uomo e la storia della Polonia. Il racconto della vicenda umana di Władysław Strzemiński pittore polacco in conflitto con il regime socialista è al centro della vicenda.
Questo è il cinema del regista polacco, con i suoi picchi e le sue digressioni meno felici, ma Andrzej Wajda ci mancherà come mancano gli altri grandi registi europei che ci hanno lasciato non solo il ricordo del loro cinema, ma la lezione umana della loro vita.

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