Anne Wiazemsky. La studentessa che diventò l’icona rossa di Godard

Il ricordo dell’attrice recentemente scomparsa diventata negli anni simbolo dei movimenti del ’68 grazie alla decennale collaborazione con Jean-Luc Godard

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Nelle interviste in cui Jean-Luc Godard ricorda i tempi dei Cahiers du Cinéma più di qualche volta si sofferma a descrivere la vita della redazione. Ci si recava in sede ogni giorno, anche se non c’era nulla da fare, e si parlava di cinema. La vita privata di ognuno era esclusa da ogni tipo di conversazione anche se implicitamente tutti sapevano chi stava frequentando chi, e quando arrivava il momento della rottura si fingeva anche di esserne sorpresi. Godard ammette che pochi, e le relative partner non erano tra questi, comprendevano questa prassi silenziosa. Era difficile accettare l’idea che in quel momento, tra gli anni ’60 e ’70, la totalità della loro vita combaciasse perfettamente con il cinema, e parlare di film comprendeva parlare pure di tutto il resto. Non sorprende quindi che all’arrivo della notizia di pochi giorni fa della morte di Anne Wiazemsky il primo pensiero di tutti sia andato al cinema dell’ex marito, quello più politico del periodo rosso, a quel La Cinese che mise per la prima volta sotto gli occhi di tutti la nuova musa del regista francese. Eppure la Wiazemsky aveva già debuttato con Bresson in A hasard Balthazar, per poi recitare, tra gli altri, per Pier Paolo Pasolini e Marco Ferreri; ridurre la sua figura alla partner decennale di una forte personalità come quella di Godard potrebbe sembrare irrispettoso. Ma proprio per quella corrispondenza tra cinema e vita nouvellevagueiana non si può pensare a Anne Wiazemsky se non come al prolungamento della lotta di un’epoca: Godard l’ha resa icona prima di attrice e moglie.

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la cinese

E pensare che la Wiazemsky, nata a Berlino e nipote del premio Nobel per la letteratura François Mauriac (intellettuale dalla personalità fortemente cattolica), era, ai tempi dell’università francese, assolutamente lontana dalle idee di ideologia maoista che circolavano all’alba del ’68 ed a cui venne associata dopo il suo ruolo in quel manifesto che fu La Cinese. A spingersi a presentarsi a quel provino fu la conoscenza con Godard che avvenne sul set del film di Bresson. La ragazza, poco più che adolescente, se ne innamorò ed accettò una parte così distante dalle sue convinzioni. Durante le riprese, che avvenivano nello stesso appartamento in cui era andata a vivere con il regista, la loro relazione fece scoppiare un certo scandalo tra i salotti parigini, tanto che le forti resistenze della famiglia di lei cominciarono a diventare pressanti. Tutto questo, ovviamente, non trapelò mai dalle parole di Godard, la cui ossessione nel trovare la congruenza tra cinema e politica escludeva qualsiasi propensione ad esporre la sua vita privata, ma i racconti del periodo complesso della realizzazione de La Cinese si possono leggere in uno dei tanti romanzi autobiografici che la Wiazemsky iniziò a scrivere a partire dagli anni ’90. E’ precisamente in Un anno cruciale (2012) che diede alla stampa il resoconto di quando accadde 50 anni fa, parole diventate di recente le fondamenta per costruire una sorta di parodia del periodo godardiano della rivoluzione culturale da parte dell’Hazanavicius di Le redoutable. Un disturbo riservato solo alle icone, appunto.

Non furono comunque solo le inquadrature dell’epoca ventenne Anne Wiazemsky tra i libretti rossi di Mao a renderla quella che diventò nell’immaginario visivo di tutti. Le conversazioni tra il suo personaggio di Véronique e quello del Guillaume di Jean-Pierre Léaud su come trasformare la loro relazione in una pratica artistica era già programmatica di quello che il suo futuro matrimonio sarebbe diventato. Partecipò così al dissacrante ritratto del consumismo in Week End, a Vento dell’Est, Lotte in Italia, Vladimir e Rosa, tutti firmati dal Gruppo Dziga Vertov di cui il marito faceva parte nel suo perentorio allontanamento dalla famiglia redazionale. Avere lei tra le interpreti sanciva la firma di Godard, il cui nome, nascosto nei titoli di coda, appariva solo tramite Anne, espressione ed essenza di un cinema nuovo che aveva preso il posto di quello della nuova onda (che non a caso aveva un’altra moglie a rappresentarlo, Anna Karina). Anche quando partecipava ad altri progetti come Teorema e Porcile di Pasolini lo faceva sempre come un prolungamento gordardiano, prestato all’amico/complice per vicinanza di poetica. Era questo il motivo per cui Bernardo Berlolucci la voleva così fortemente in un suo film: desiderava collaborare idealmente alla rivoluzione di Godard. Quando la relazione tra l’attrice e il regista terminò sancì per quest’ultimo la fine dell’ennesimo periodo cinematografico ed il ritiro definitivo in Svizzera, e per lei decenni in cui faticò a togliersi quell’aurea simbolica che ormai le apparteneva. Quello che però rappresentava non c’era più, il fervore del comunismo e delle lotte studentesche era finito, e di quel periodo rimanevano solo le immagini più belle della sua filmografia, la quale continuò comunque ad essere prolifica in seguito, anche se senza la stessa forza espressiva.

One-OneInfatti nulla la può ricordare meglio che le inquadrature in cui Godard la impresse in eterno, soprattutto in quel One Plus One (conosciuto anche come Sympathy for the Devil), lo pseudo-documentario che il regista girò in contemporanea con i moti del maggio del 1968 sui Rolling Stones per nasconderne all’interno uno dei più forti messaggi alla lotta al capitalismo. Chi c’era a cantare non aveva importanza (tant’è che inizialmente dovevano essere i Beatles), quelle che rimangono sono le scene apparentemente fuori contesto in cui Anne Wiazemsky, come appunto simbolo e firma, rivendicava la lotta marxista di un intero movimento. La si vede scrivere slogan politici sui muri, vestita in ambiti ottocenteschi a rappresentare un’Eve Democracy capace solo a pronunciare “sì” oppure “no”, fino all’ultima, leggendaria inquadratura, dove la si vede prima essere fucilata, poi essere caricata su una gru, avvinghiata ad una macchina da presa con accanto una bandiera nera a rappresentare l’anarchia ed una rossa a simboleggiare il socialismo. Così si alza fino al cielo, carica di un’iconografia pesante come quella che poche altre interpreti nella storia del cinema hanno dovuto sorreggere. E non la si ridimensiona ricordandola per questo, perché non tutti sono capaci a sposarsi con un’idea.

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