Aquaman, di James Wan

La tendenza all’espansione di Wan prende il sopravvento: la nuova tappa del DC Universe segue la trasformazione del bimbo Arthur nel gigante Momoa come crescita esponenziale dei regni da esplorare

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L’incredibile finale di The Conjuring – Il caso Enfield si rivela sempre di più come la sequenza-perno intorno alla quale far gravitare il cinema di James Wan: quella cantina allagata allargava magicamente il set aprendo una crepa dimensionale tra le quattro mura dell’horror da possessione domestica, e allo stesso tempo faceva vorticare intorno a sé tutti i meccanismi mélo che sottotraccia ne innervavano la tensione sino a farli a forza esondare (incarnava tutto col solito magnetismo, tra misticismo trattenuto e necessità di liberarsi, la sublime Vera Farmiga).
Il regista sembra voler ripartire da quel mood e da quell’inondazione per settare quantomeno il tono di questo suo Aquaman, ennesimo apporto del cineasta malese-statunitense ad un franchise seriale, tra le sue saghe dell’orrore e Fast & Furious 7.

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E in effetti la storia d’amore tra il guardiano del faro Thomas Curry e Atlanna, principessa del regno sotterraneo d’Atlantide, sembra all’inizio seguire proprio quelle traiettorie di gonfi sentimenti di famiglia minacciati da visitazioni che prendono forma dall’inconscio e dal passato degli amanti, tanto care all’autore degli Insidious (il primo attacco delle milizie atlantidee al focolare di Nicole Kidman e Temuera Morrison contiene di fatto già le dinamiche che vedremo in tutto il film). Il piccolo Arthur, destinato a diventare Aquaman, è chiaramente un bambino indemoniato, come dimostra la sequenza nell’acquario, perfetta per il campionario soprannaturale del Wan più “spettrale”.
Poi però quella tendenza all’espansione che il cineasta ha dimostrato appunto nei suoi ultimi due lavori prende il sopravvento, e la nuova tappa del DC Universe segue la trasformazione del bimbo Arthur nel gigantesco Jason Momoa come crescita esponenziale e smodata dei regni da esplorare, sia sott’acqua che sulla terraferma, tra il Sahara e la Sicilia, avventure archeologiche alla ricerca del tesoro, e sfide a duello a difficoltà progressiva con creature mitologiche miste a supercattivi tecnologici, tra il fratellastro in delirio di onnipotenza Patrick Wilson (feticcio di Wan), e il Black Manta di Yahya Abdul-Mateen.
E’ la stessa modalità che Wan ha imparato proprio da Furious 7, e infatti ritrovi la stessa alternanza tra corpo-a-corpo ipercoreografati con la mdp che si ribalta più volte per seguire da vicino le parabole dei colpi, e piano-sequenza elaborati e truccatissimi su livelli sfalsati e distanze diverse, sperimentata già nel film-platform con Vin Diesel (c’è un istante di avvicinamento aereo a landa esotica su pezzo coattissimo di Pitbull che potresti copincollare preciso preciso sulla prossima avventura in giro per il Mondo del clan Toretto…).

Di inedito c’è la gioia con cui tutto l’armamentario dell’opera si tuffa nell’esasperazione cromatica degli elementi fantastici, un probabile tentativo di ribattere alla palette lisergica dei rivali Guardiani della Galassia e Ragnarok che raggiunge qui la stratificazione di pannelli sottomarini stracolmi di bestie, creature degli abissi, invenzioni architettoniche, tridenti scintillanti e armature dorate, tanto da rilanciare la grande sfida del cinema di immaginare il fondo degli oceani, imperitura da La Sirenetta a Cameron via Nemo e Ponyo sulla scogliera, in uno stile che il veterano della luce Don Burgess immagina alla fine non troppo lontano da un Tarsem, per dire.

Il risultato è con molta probabilità anni luce lontano da quello che fino al secolo scorso avremmo chiamato “un film”, nonostante mantenga alcuni riferimenti forti all’action fantastico old school (a partire ovviamente dalla caratterizzazione del muscolare Arthur/Momoa, ma sua maestà Dolph He-Man Lundgren è un segno che parla chiaro), e giochi invece pesantemente sulla dispersione della narrazione e dello sguardo, sulla sospensione delle coordinate e degli appigli, sull’accumulo gloriosamente disordinato (e dunque riordinabile a piacimento).

E’, in quest’ottica, forse il più snyderiano dei titoli DC sotto la supervisione ma non la regia dell’autore di Man of Steel, e prima che il suo progetto fosse definitivamente disarcionato: Wan pare cogliere infatti le intuizioni combinatorie del multi-verso di Sucker Punch come base per la propria cosmogonia (la guerriera Mera di Amber Heard potrebbe tranquillamente essere una delle principesse di quel film) molto meglio di quanto avessero fatto il sabotaggio di Justice League e forse anche Wonder Woman. Giusto per rassicurare Willem Dafoe che spesso appare in scena un po’ disorientato…

Titolo originale: id
Regia: James Wan
Interpreti: Jason Momoa, Amber Heard, Patrick Wilson, Willem Dafoe, Nicole Kidman, Dolph Lundgren, Temuera Morrison, Yahya Abdul-Mateen II, Ludi Lin
Distribuzione: Warner
Durata: 143′
Origine: USA, 2018

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