ASIAN FILM FESTIVAL 2006 – "Faccio film per capire come funzionano i miei ricordi" – Intervista a Royston Tan

Abbiamo incontrato il regista vincitore dell’Asian Film Festival 2006 con la sua seconda opera ‘4:30’. Sincero e disarmante come il suo cinema, complesso, acuto e trasversale come i suoi due splendidi film visti a Roma. Un incontro unico e intenso con uno dei cineasti più promettenti della new wave asiatica.

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di Carlo Valeri e Sergio Sozzo
 
ROMA – L’incontro era fissato per le 16 e mezza, ci sembrava bello intervistare Royston Tan alle 4:30. Il regista arriva invece una mezzoretta dopo, si siede sul muretto di fronte al Cinema Missouri, aspetta che si inizi con le domande. “Is now that we start?” A fine chiacchierata il sole è tramontato, lì fuori diventa più difficile guardarsi bene negli occhi con le ombre della sera, l’inquadratura nelle riprese fatte da Clara con la videocamera non è più chiara e distinguibile. Il giorno dopo sapremo che il lavoro che Tan ha portato all’Asian Film Festival ha vinto il premio come Miglior Film, a dimostrazione di quanto la manifestazione tenga a questo cineasta dallo sguardo acuto, trasversale, singolare – ma soprattutto puro, come quella lacrima che gli è scesa sulla guancia sinistra mentre rispondeva a una domanda (“i miei film sono pieni di personaggi che piangono. beh, adesso avete anche il regista che piange…”): Royston Tan, sincero e disarmante come il suo cinema, spiazzante e sorprendente come queste sue risposte.
 
Partiamo da Monkeylove, il tuo cortometraggio più straordinario e commovente. In quegli otto minuti ci sembra sia già espressa la sostanza del tuo cinema come tentativo di raggiungere un contatto con l’altro che si dimostra essere impossibile.
 
Il cinema ti permette di rendere immortali persone, cose, ed emozioni. La distanza che senti nei confronti di una sceneggiatura dietro cui nascondersi comodamente, a volte salta del tutto quando la realtà penetra fortemente nell’opera che stai girando, come quell’istante in Monkeylove in cui entro nella scena per abbracciare quell’attore che piange nella ripresa appena effettuata.
 
In 15 invece c’è quella bellissima scena delle “lacrime inverse”, che risalgono il viso di un giovane aspirante suicida. E’ stata un’intuizione in post-produzione o era già tutto scritto nella sceneggiatura?
 
Mi è venuta in mente durante le riprese e l’ho scritta prima di girare. Molti registi filmano le lacrime senza che si vedano. Spesso va a finire quindi che le perdi nell’inquadratura. Facendole “tornare indietro” rimangono impresse.
 
Per certi aspetti 15 ci sembra un film sul confine sempre più labile tra una dimensione reale della vita e una virtuale. Da questo punto di vista può essere visto anche come un documentario sulla sensibilità postmoderna delle giovani generazioni? Sul loro (nostro) senso di realtà come realtà artificiale?
 

Chiaramente la nostra generazione non è soddisfatta del suo livello di realtà, quindi cerca di crearsene un’altra con l’immaginazione. Gran parte del cinema di oggi è un cinema della fuga. Anche per questo credo che tra non molto ci saranno sempre più film liberi nello stile e lontani dalle strutture convenzionali.

Nel tuo cinema uno dei temi più ricorrenti sembra essere la mancanza di una guida famigliare. 15 parla di giovani senza genitori, mentre 4:30 illustra un rapporto tra un figlio e un padre fantasma. Questo tema ha a che fare con il tuo passato?
 
L’immaginazione parte sempre dai ricordi. Attraverso l’immaginazione posso togliere e aggiungere nel ricordo cose o persone che voglio o non voglio che ci siano. Nei film succede questo. E io faccio film per capire come funzionano i miei ricordi.
 
Quali sono i tuoi riferimenti registici? Gli autori a cui ti senti maggiormente legato?
 
Ed Wood, Kieslowski, Stephen Chow. Poi c’è Wong Kar-Wai. A 19 anni sognavo di fare film come lui.
 
Il corpo, inteso come corpo “alterato” in 15 (tatuaggi, piercing, ferite) e come identità impalpabile in 4:30, ci sembra un elemento molto importante nel tuo cinema.
 
Nei miei film cerco sempre un contatto umano tra i personaggi, e dei personaggi col pubblico. Ad esempio in 4:30, quando il bambino guarda in macchina piangendo è come se chiedesse al pubblico: “Siete anche voi come me? Vi sentite anche voi così?” In generale credo che sarebbe meglio se tutti noi fossimo nudi, perché solo così si arriva all’anima che è dentro ognuno.
 
Qual è la tua posizione all’interno della cinematografia di Singapore?
 
Io faccio parte della “quarta generazione” di cineasti. Dopo lo stop durato 20 anni, a Singapore si è tornato a fare cinema con una certa intensità. Tutti noi della “quarta generazione” siamo molto prolifici e amiamo fare film molto diversi, ma personalmente dopo il mio prossimo film “Sing Sai Hong”, che è un folle musical con i peggiori costumi che si siano mai visti al cinema, penso proprio di riposarmi.
 

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