ASIAN FILM FESTIVAL 2012 – "Quattro Hong Kong" e "Quattro Hong Kong 2"

Due film commissionati dall’Hong Kong International Film Festival, formati da quattro cortometraggi ognuno: otto punti di vista che tentano di raccontare le multietniche anime di Hong Kong, attraverso diverse sensibilità registiche a confronto con la tanto sottovalutata “narrazione breve”. Tra omaggi e commoventi ricordi spiccano tre gemme: la deriva sperimentale di Apichatpong Weerasethakul, lo splendido sguardo cinefilo di Fruit Chan e le liberissime (dis)inquadrature di Brillante Mendoza

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Hong KongDue film commissionati dall’Hong Kong International Film Festival, formati da quattro cortometraggi ognuno: otto punti di vista che tentano di raccontare le multietniche anime di Hong Kong, attraverso diverse sensibilità registiche a confronto con la tanto sottovalutata “narrazione breve”. Quattro Hong Kong si apre con l’episodio di Herman Yau e con i suoi ricordi d’infanzia che (come in tantissimo cinema honkonghese) collimano immancabilmente con il cibo: il “riso colloso fritto” così difficoltoso da preparare per gli odierni cuochi e così legato alla tradizione di un popolo. Yau fa coincidere il tempo lungo una sera per aspettare la preparazione del riso con il tempo del ricordo: una vecchia signora, un carretto all’angolo della strada e un bambino che bramava la sua porzione di riso. La solidarietà che si instaura tra i due diventa anche il ricordo di Hong Kong.

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Il secondo episodio , diretto da Clara Law, è un omaggio scoperto a Le Jetée di Chris Marker. Ma mentre il grande autore francese utilizzava il mezzo fotografico come abisso teorico per (de)costruire il cinema, qui si utilizza il fotogramma digitale come confine estremo dell’immagine odierna. Dopo non ci sarà più niente: oltre il pixel non c’è visione e Hong Kong diventa il tempio della speranza futura, in un esperimento filmico forse non del tutto convincente ma decisamente ardito. Terzo episodio targato dal giovane Heiward Mak, che affronta un altro tema classico della cinematografia honkonghese: l’amore e la sua impossibilità. Due sconosciuti parlano al telefono, lui tenta di convincerla a raggiungerlo, lei scappa e si perde nella notte. Ma, in fondo, i due stanno veramente parlando tra loro? Dove sono i limiti del sentimento? Sono nei personaggi del film, nello spettatore che guarda o nella Hong Kong notturna che sovrasta entrambi? Ed eccoci alla vera gemma: l’ultimo corto diretto da Fruit Chan è un commovente omaggio al cinema di genere honkonghese. Utilizzando la tecnica della motion capture Chan racconta di un giovane cinefilo che ricorda la madre defunta innamorata del cinema. Giornate intere passate in sala e a cercare “tuo padre, che è un attore, indovina tu chi è…”. E allora nasce la passione, non si può più fare a meno dell’immagine in movimento, mentre si cerca un padre tra Bruce Lee, Jackie Chan o Andy Lau…il cinema, non importa di che genere, diventa i vero padre che culla i sogni e il corpo del ragazzo smaterializzato in ricordo.Brillante Mendoza Uno splendido omaggio a una città, alla sua produzione dei sogni, a un passato sempre presente da salvaguardare.

Un anno dopo altri quattro registi si cimentano in Quattro Hong Kong 2: e qui si parte subito col botto. Brillante Mendoza confeziona dieci minuti di immagini avvolgenti e fluide che (dis)inquadrano Hong Kong sulle parole in fuori campo di due amori lontani tra loro: un anziano che ha perso sua moglie e parla con lei nel ricordo e un adolescente che vuole costruire un amore nel presente ed è dominato dalla paura. Hong Kong diventa contenitore e detonatore del cinema, del sentimento e del movimento: prendendo a metafora l’enorme mercato dei fiori della città con i suoi colori e le sue suggestioni. Cinema aptico, cinema visuale, ancora una volta Mendoza offre un’esperienza totale allo spettatore. Si prosegue col malesiano Ho Yuhang, che confezione un ironico intrigo internazionale tra la Malaysia e Hong Kong e dove il mercato nero degli animali tropicali crea atmosfere simil noir. E poi è la volta del più estremo e sperimentale degli otto corti. Ovviamente targato Apichatpong Weerasethakul: un balcone, due personaggi, una vista panoramica castrata dai palazzi e dialoghi inudibili filtrati da un sonoro acquatico e inquietante. L’universo spirituale e preconscio del cinema di Apichatpong si insinua anche ad Hong Kong: lo sguardo è castrato ma il cinema evade nel sonoro. Sperimentale e hithchcochiano nel contempo, il regista thailandese sorprende e spiazza come al solito. Chiude il secondo quartetto il grande Stanley Kwan, che stavolta non si incunea nei meandri passionali dei suoi protagonisti, ma li coglie nella pre-azione: un bus che probabilmente fa ritorno nella grande città e che ospita tante piccole storie, tante piccole derive unite dalla musica di Bach. Kwan inquadra con un affetto sconfinato l’attesa della sua città…quella Hong Kong che proprio non può più fare a meno di essere inquadrata dal Cinema.

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