Babadook, di Jennifer Kent

Dall’Australia un bell’horror che recupera le possibilità ludiche del genere, senza rinunciare alla sua dimensione più intima e in grado di descrivere il nostro rapporto col mondo

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Fiducia nell’horror e nelle sue possibilità: è quanto emerge dalla visione di Babadook, acclamato esordio nel lungometraggio dell’ex attrice australiana Jennifer Kent, che realizza un film in controtendenza rispetto alle derive più “realistiche” del genere. Non che questo implichi una qualsivoglia rinuncia rispetto alle trattazioni della cifra più “intima” del filone, quella che scava nelle paure interiori di fronte alle sfide poste in essere dalla vita di tutti i giorni. La protagonista Amelia è anzi vedova e madre, alle prese con una società che sembra isolarla, e deve far fronte a una serie di doveri che la portano inavvertitamente a entrare in contatto con il misterioso Babadook del titolo.

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Generato da un libro per l’infanzia degno delle opere di Edward Gorey (celebre e macabro illustratore statunitense), il mostro prende possesso della scena incarnando i timori inconsci di Amelia, ma senza rinunciare a una certa tensione ludica: non a caso, se Amelia teme l’incursione della creatura, il figlio Sam ne sembra quasi morbosamente attratto, lo riconosce come un elemento organico a un immaginario che gli è proprio, sebbene in negativo. Già qui si comprende quanto Kent conosca bene le dinamiche più profonde che legano gli spettatori di lunga data al genere, quel doppio rapporto di attrazione-repulsione che spinge ad amare la mostruosità, pur pretendendo il mantenimento della sua natura di “diverso” rispetto all’ordine costituito.

Da qui, a cascata, si genera l’estetica che ritaglia ampie porzioni di nero negli spazi della casa, la predilezione per gli interstizi più “iconici” per la paura (l’armadio, sotto il letto), in una dinamica madre-figlio che trova la sua maggiore realizzazione non nella vita di tutti i giorni, ma nella condivisione ludica

babadookmostrodella fiaba che apre le porte all’orrore. Gioco e morte si sovrappongono e si confondono e il Babadook risalta così come una creatura da libro pop-up, mostro “animato” e ombra senza spessore fisico: un’icona sgraziatamente repellente eppure affascinante sin dal nome onomatopeico, che evoca la dimensione artigianale dello scioglilingua infantile e, visivamente, del disegno, del contrasto netto fra il bianco della pagina e il nero del segno di matita. Non stupisce apprendere, pertanto, che alle spalle Babadook ha un cortometraggio, Monster, che Jennifer Kent ha realizzato in bianco e nero nel 2005 e che già enumera le dinamiche principali del film: l’idea di un “uomo nero” infantile che però costringe non il figlio ma la madre a mettersi in gioco, e il piacere ludico dell’oggetto tattile e infantile che genera il mostro (nel caso specifico una bambola di pezza).

Si rinnova in questo modo il piacere di un racconto che, alla sofisticazione più colta dei riferimenti psicanalitici, accompagna un gusto per l’immaginazione fantastica e per una dimensione quasi poetico-fiabesca che il genere sembrava avere un po’ perso. Anche per questo la vittoria contro il mostro non può mai escludere il suo ritorno, e la convivenza con lo stesso: la fiducia nel genere si vede anche dalla scelta di non negare che, in fondo, questa dimensione oscura e spaventosa, sia in fondo necessaria e parte del nostro modo di relazionarci al mondo.

Titolo originale: The Babadook

Regia: Jennifer Kent

Interpreti: Essie Davis, Noah Wiseman

Distribuzione: Koch Media

Durata: 94′

Origine: Australia/Canada, 2014

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