Barry Lyndon, di Stanley Kubrick

barry lyndon

La bellezza di Barry Lyndon, la luce pittorica e naturale di molte scene, non è al servizio della storia. Per questo spesso è stato criticato o additato con superficialità. Ma è uno dei livelli più alti toccati dallo sguardo del regista di Full Metal Jacket ed Eyes Wide Shut. Oggi in sala nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna in originale con sottotitoli in italiano

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“Dopo la vaga utopia mètastorica (o storia di qualcosa che non sarà più ‘uomo’) di 2001 Odissea nello spazio, dopo la disperata sarabanda di vitalità spettacolare di Arancia Meccanica, dopo aver mostrato i segreti agghiaccianti delle avventure dell’occhio, Stanley Kubrick affronta la storia a partire dalla camera rococò di 2001, precipitando il pubblico in una nuova avventura visiva” (E.Ghezzi Stanley Kubrick – Il Castoro 2002)

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L’utopia di un film, e di un regista, che voleva raccontare la Storia (il settecento) con il cinema e la musica. Ma allo stesso tempo realizzare una riflessione sul senso del cinema e della Storia. La meraviglia di Barry Lyndon è (anche) in questo cortocircuito estetico. Kubrick mette in scena il lungo racconto della vita di questo avventuriero uscito dalla penna di Wlliam Thackeray (The Luck of Barry Lyndon,1844) che cerca in tutti i modi di farsi cooptare dall’aristocrazia inglese. Un uomo, Barry Lyndon (Ryan O’Neal), senza apparente morale, nato povero e con una smania di ricchezza. Irridente ed impenitente nei suoi atteggiamenti lascivi e iracondi. Un antieroe che lo scrittore tratteggia con un moralismo molto amaro. Ma non è quello l’interesse del regista. Kubrick prende in mano il romanzo di Thackeray e vi opera un enorme lavoro di sottrazione. Il ritmo del racconto diventa lento e inesorabile, una voce narrante sostituisce la soggettiva del romanzo. La maggior parte degli avvenimenti avvengono fuori dallo schermo e lo spettatore ne è informato dalla voce narrante. L’ascesa e la caduta dell’antieroe settecentesco nel flusso di una Storia che ne sommerge e dimentica l’esistenza. Come nella scena finale, senza dialoghi, dove la malinconica Lady Lyndon (Marisa Berenson) firma delle carte e sul pagamento destinato a Barry per il suo esilio si ‘cristallizza’ la Storia con una data che si riesce a leggere, 1789. E’ la rivoluzione che attende dietro l’angolo e di cui ancora una volta l’avventuriero sarà (forse) protagonista. La musica e la luce dominano, non solo questo finale, ma tutto il racconto cinematografico. Creando quella meraviglia ancora oggi inarrivabile dopo 40 anni dalla prima. 

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barry lyndonScriveva  nel 2009 il compianto critico americano Roger Ebert, dando 5 stelline a Barry Lyndon: “Il film ha l’arroganza del genio. Non importa il budget o il perfezionismo tecnico. Quanti registi – si domanda Ebert – avrebbero avuto la stessa confidenza che riesce ad avere Kubrick nel prendere una storia quasi irrilevante di ascesa caduta di un uomo e realizzare un’opera in uno stile che ci impone di cambiare atteggiamento verso quel personaggio?”. La bellezza di Barry Lyndon, la luce pittorica e naturale di molte scene, non è al servizio della storia. Per questo spesso è stato criticato o additato con superficialità. Ma è uno dei livelli più alti toccati dallo sguardo del regista di Full Metal Jacket e Eyes Wide Shut. Kubrick, ancora una volta e forse più decisamente, sembra indicarci la direzione: illustrandoci come il sguardo vede il mondo e la Storia. 

barry lyndonBarry Lyndon vinse 4 premi Oscar: miglior scenografia, costumi, direzione musicale e per miglior composizione musicale orginale (The Chieftains). Girato in pellicola (Eastmancolor – 1,55:1) per poter filmare ‘a lume di candela’ Kubrick tirò fuori dal cassetto tre speciali ottiche che aveva acquistato dalla Nasa un decennio prima, con un’apertura f/0.7. Obiettivi dell’azienda tedesca Zeiss che l’agenzia spaziale aveva commissionato per le missioni sulla Luna per fotografare la faccia non illuminata dal sole. Secondo gli esperti sono ancora oggi le ottiche più luminose mai prodotte in tutta la storia della fotografia. Kubrick utilizzò il 35mm f/0.7 e il 50mm f/0.7, montate su una cinepresa modificata per poter girare le complicare scene d’interno con la fioca luce delle candele. La grandezza (non limitata solo all’aspetto tecnico-fotografico) dello sforzo archeologico/pittorico di Kubrick, purtroppo poco compreso dallo sguardo distratto e impreparato degli spettatori nel 1975, risiede anche in questa capacità di essere archetipo di una visione  e  di una racconto già multimediale. Si entra nella Storia con i tanti ‘zoom’ che portato lo sguardo dentro, attraverso, l’inquadratura. Così il suo ritorno in sala è una nuova pagina offerta a chi, per ragione anagrafiche, ha mancato quella possibilità. L’ambizione di un progetto che ancora oggi nell’epoca della percezione ad alta definzione (o 4K e via dicendo) è una lezione per improvvisati e smemorati aspiranti registi. 

 

Titolo originale: id.

Regia: Stanley Kubrick

Interpreti: Ryan O’Neal, Marisa Berenson, Patrick Magee, Hardy Krüger, Steven Berkoff

Durata: 184′

Distribuzione: Il Cinema ritrovato. Cineteca di Bologna

Origine: Gran Bretagna, 1975

 

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