Barry Seal – Una storia americana, di Doug Liman

Acida parabola sul Sogno Americano con Tom Cruise nei panni dell’aviatore che tra gli anni 70 e 80 divenne informatore della Cia e corriere della mafia colombiana.

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Avevamo lasciato Tom Cruise a leccarsi le ferite questa estate per l’inaspettato quanto rumoroso flop de La Mummia e lo ritroviamo a stretto giro di posta di nuovo in sala con quello che, a conti fatti, è il suo primo ruolo evidentemente drammatico dai tempi del nazista “pentito” in Operazione Valchiria. Quasi dieci anni da allora, nel corso dei quali la star di Top Gun si era praticamente specializzata nel congelamento quasi “fantascientifico” della sua icona, come fosse l’alieno (la filosofia di scientology!) di una realtà parallela in cui non si muore, né si invecchia e si interpretano solo action e “cloni” (Jack Reacher, Mission Impossible, Oblivion, Edge of Tomorrow). Barry Seal è il tentativo piuttosto dichiarato di tornare sul pianeta Terra, a interpretare “cose di questo mondo”. E infatti è un biopic dedicato all’aviatore americano finanziato dalla Cia tra gli anni settanta e gli ottanta, corriere per conto del cartello di Medellin e socio di Pablo Escobar e dei fratelli Ochoa.

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Un progetto quindi diverso, per un ruolo più ambiguo e sfaccettato, quasi politicamente scorretto, che sembra provenire direttamente da una puntata di Narcos o da un film di Martin Scorsese o Brian De Palma, vuoi per il “genere” vuoi anche per lo spirito dissacratorio con cui l’operazione guarda al Sogno Americano e che il titolo originale American Made dichiara apertamente. In fin dei conti Barry è a tutti gli effetti un antieroe capitalista, emanazione della politica consumistica, mediaticamente aggressiva e reazionaria degli Stati Uniti sotto la presidenza Reagan, che si arricchisce contrabbandando droga in America, armi in Nicaragua e informazioni ai servizi segreti. Finché, come capita a ogni pedina finita in un ingranaggio più grande, rimarrà schiacciato dallo stesso intricato sistema di politica, spionaggio e vendetta che aveva trasformato lui e la sua famiglia in miliardari. Come in Quei bravi ragazzi e soprattutto Casinò – o anche il recente e sottovalutato Gold di Stephen Gaghan – assistiamo quindi a una parabola di ascesa e caduta, che racconta non soltanto la via crucis di un avventuriero individualista ma soprattutto la perdita d’innocenza di una nazione volgare e corrotta, con la voce fuori campo di Cruise – altra emanazione scorsesiana – che commenta i fatti con toni sarcastici, anticipa eventi e si rivolge direttamente allo spettatore. E qui la sceneggiatura di Gary Spinelli e la regia di Doug Liman hanno la migliore intuizione concettuale del film, quella di far confessare il personaggio con delle vhs anni 80. Il volto di Cruise parla direttamente a una vecchia telecamera e diventa (finalmente?) vintage, reperto archeologico vicino alla smagnetizzazione come le videocassette attraverso cui racconta la storia. Deformazione interessante dell’immaginario cruisiano. Adesso cominciamo a non parlare più di un corpo ma del simulacro di un altro tempo.

Titolo originale: American Made
Regia: Doug Liman
Interpreti: Tom Cruise, Domhnall Gleeson, Jesse Plemons, Lola Kirke, Sarah Wright, Jayma Mays, Connor Trinneer, Caleb Landry Jones, Benito Martinez, April Billingsley, Jed Rees, Justice Leak, Mickey Sumner, Alejandro Edda, Morgan Hinkleman, Brandon Stacy
Distribuzione: Universal
Durata: 115′
Origine: USA, 2017

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