Bava al Cinema Trevi di Roma

26-31 gennaio: Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava

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CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

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Cinema Trevi (Vicolo del Puttarello 25 – Roma)
26-31 gennaio
Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava
Un regista sempre più amato, conosciuto, studiato e, inevitabilmente, imitato. È il destino postumo di Mario Bava (1914-1980), stimato in vita più come grande direttore della fotografia e come straordinario creatore di effetti speciali (l’uomo dei trucchi…) che come abilissimo regista capace di spaziare nei generi e di lasciare un’impronta decisiva nel “cinema di paura”, nelle sue innumerevoli varianti. In realtà, come ben sottolineato dalla critica francese che ha avuto il merito di adottarlo fin dal suo magistrale esordio nel 1960 con La maschera del demonio, Bava è stato un innovatore, oltre che un maestro della luce (e delle ombre che ben si sposavano alla sua idea di cinema): ha creato generi, filoni, effetti, modellini, inquadrature, ha creato cinema, spesso dal nulla, sulle ali di una fantasia pari solo all’ingegno e a una tecnica prodigiosa. La mano di Bava si vede sempre, anche nei film girati da altri registi e ai quali ha collaborato, a volte anonimamente, perché Bava era come il Wolf di Pulp Fiction: «Sono il signor Bava, risolvo problemi», parafrasando la battuta del film di Tarantino. Si vede nei suoi film meno personali, come i western, più genialmente fantasiosi, come i film di fantascienza, nelle sue incursioni nel filone sexy (Quante volte… quella notte) o nel poliziesco (Cani arrabbiati): è una questione di luci, di esplosioni pop, di stile. Come scrive Joe Dante: «La grande influenza di Bava sui registi contemporanei è sottovalutata. Non sono sicuro che questo valga l’Europa, ma in America ci sono molti filmaker che hanno assimilato le immagini e lo stile di Bava trasferendoli in altri generi. Ovunque sia, Mario può essere contento della sua eredità». Questa e quasi tutte le citazioni contenute nelle schede sono tratte dal bel volume Kill Bill Kill! Il cinema di Mario Bava, curato da Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni (edizione un mondo a parte), che verrà presentato in occasione della tavola rotonda, alla presenza del figlio di Bava, Lamberto.
Si ringraziano per la collaborazione, oltre agli autori del volume, Stefano Finesi e Massimiliano Rossi (La farfalla sul mirino), il Museo Nazionale del Cinema di Torino, la Cineteca Griffith di Genova, Rai Direzione Teche.
 
«Era un maestro dei movimenti di macchina, il modo di rendere emotiva una sequenza solo spostando la macchina da presa o abbassandola era geniale. Come Hitchcock, usava la camera e i movimenti, dolly e carrelli, in modo espressivo e non fini a se stessi. Il movimento di macchina buono è solo quando porta a un risultato. In questo era magistrale».
Dario Argento
 
sabato 26
ore 17.00
La maschera del demonio (1960)
Regia: Mario Bava; soggetto: da Il Vij di Nikolaj Gogol’; sceneggiatura: Ennio de Concini, Mario Serandrei; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Barbara Steele, John Richardson, Andrea Checchi, Ivo Garrani, Arturo Dominici, Enrico Olivieri; origine: Italia; produzione: Galatea, Jolly Film; durata: 88’
Due viaggiatori nelle steppe russe fanno resuscitare la strega Asa, che ha il volto identico alla sua discendente Katia. La strega vampirizzerà quasi tutti i componenti della famiglia, cercando d’impadronirsi del corpo del pronipote. «Gli spettatori e i critici italiani dell’epoca furono ingannati dal genere, ma La maschera del demonio è un film di ambizioni alte, quanto poteva esserlo Il bacio della pantera di Tourneur. Bava rende significativamente omaggio a Nosferatu di Murnau nella sequenza della carrozza di Iavutich che attraversa il bosco. Ma girando in ralenti (al contrario di Murnau, che accelerava), Bava sottolinea anche la propria originalità nel momento in cui cita un’iconografia preesistente. Più che I vampiri, dove l’elemento orrorifico era ancora timido e necessitava per di più di una spiegazione naturalista, La maschera del demonio è il film che fa nascere l’horror italiano: un genere che durò fino al 1966 circa, mai destinato a grandi incassi, ma seguito (con maggiore entusiasmo) anche fuori dal nostro paese» (Pezzotta). «Io regista non lo volevo fare, perché secondo me il regista deve essere veramente un genio e poi stavo bene a fare il direttore della fotografia, guadagnavo un sacco di soldi. Anni prima avevo letto Il Vij di Gogol. Lo lessi ai miei figli a Silvi Marina, erano ancora piccoli e non c’era ancora la televisione. I due, poveretti, dalla paura dormirono in mezzo al letto. Siccome in quel periodo era uscito Dracula, pensai di fare un film del terrore. Venne fuori La maschera del demonio, de Il Vij era rimasto solo il nome del protagonista, era tutta un’altra storia. Cinque miliardi incassi in America e ho fatto il regista» (Bava).
 
ore 18.45
La frusta e il corpo (1963)
Regia: John M. Old [Mario Bava]; sceneggiatura: Julian Berry [Ernesto Gastaldi], Robert Hugo [Ugo Guerra], Martin Hardy [Luciano Martino]; fotografia: David Hamilton [Ubaldo Terzano]; montaggio: Rob King [Roberto Cinquini]; interpreti: Daliah Levi, Christopher Lee, Tony Kendall [Luciano Stella], Isli Oberon [Ida Galli], Harriet White, Alan Collins [Luciano Pigozzi]; origine: Italia/Francia; produzione: Vox Film, Leone Film, Francinor-Paris International Productions; durata: 86’
Il gotico secondo Bava. Kurt, il figlio del conte Menliff, viene ucciso dopo il suo ritorno nel maniero di famiglia. Il suo spirito ossessiona la cognata, un tempo sua amante, creando un clima di terrore. Il film ebbe problemi con la censura: «Me lo hanno sequestrato perché si vedeva Christopher Lee che frusta Daliah Levi tutta compiaciuta e gaudente» (Bava). Sergio Martino, ispettore di produzione del film, ricorda che Bava «era un regista che aveva un grandissimo rispetto per il denaro e la pellicola, girava addirittura con il cronometro. Per esempio gli ho visto fare una cosa che io non ho mai fatto: strappare le pagine del copione dicendo: “Siamo abbastanza lunghi, questa scena non la giriamo». Ed è una cosa molto sana, tagliare prima invece di tagliare dopo». La protagonista, Daliah Levi, era reduce dall’indimenticabile prova ne Il demonio di Brunello Rondi.
 
ore 20.30
Mario Bava: Operazione paura (2004)
Regia: Gabriele Acerbo, Roberto Pisoni; fotografia: Luca Brovelli; montaggio: Carlotta Giorgi, Davide Sanson; origine: Italia; produzione: Sky Cinema; durata: 53’
Il documentario, con la guida di Joe Dante e le testimonianze di molti registi hollywoodiani, ripercorre la carriera di Mario Bava, il regista italiano che con il suo talento onirico e visivo, la sua enorme capacità di inventare soluzioni tecniche di incredibile efficacia con budget irrisori, ha creato horror, thriller e film fantastici dallo stile ineguagliabile. Testimonianze di Dario Argento, Fabrizio Bava, Lamberto Bava, Mario Bava, Alberto Bevilacqua, Tim Burton, Roman Coppola, Roger Corman, Callisto Cosulich, Luigi Cozzi, Joe Dante, Dino De Laurentiis, Stefano Della Casa, Massimo De Rita, John Landis, John Phillip Law, Alfredo Leone, Tim Lucas, Fulvio Lucisano, Mario Monicelli, Ennio Morricone, Daria Nicolodi, Carlo Rambaldi, Elke Sommer, Barbara Steele, Sergio Stivaletti, Quentin Tarantino.
 
a seguire
I tre volti della paura (1963)
Regia: Mario Bava; soggetto: da racconti di Anton Cechov, Aleksej Tolstoj, Guy De Maupassant; sceneggiatura: Marcello Fondato, con la collaborazione di Alberto Bevilacqua, M. Bava, [non accreditato Ugo Guerra]; fotografia: Ubaldo Terzano; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Michèle Mercier, Lydia Alfonsi, Boris Karloff, Suzy Anderson, Mark Damon, Jacqueline Pierreux; origine: Italia/Francia; produzione: Emmepi Cinematografica, Galatea, Société Cinématographique Lyre; durata: 99’
Tre racconti del terrore, introdotti da Boris Karloff. «Film singolarissimo, quasi unico nella sua struttura di trilogia di novella del brivido; tre variazioni e tre stili baviani. Nella prima novella, “da camera” troviamo un Bava attento al dettaglio psicologico, all’evoluzione ambigua dei due personaggi, senza trucchi o fantasie visuali. Nella seconda, un piccolo capolavoro in se stessa, il tema del vampirismo affiora evocato con richiami letterari e si impernia tutto sulla poderosa figura, miticamente gigantesca, di Boris Karloff. Nella terza, tutto è atmosfera e gioco di ombre e luci, rumori e mosconi, un Bava libero di materializzare le sue vicende paurose. Che dire dell’introduzione ai film detta da Karloff su uno sfondo magico-spaziale? Che è surclassato in bellezza, in poesia e in genialità pura dal finale autoironico» (Codelli). «Se il lungometraggio che mi ha spaventato di più è un classico di Robert Wise, Gli invasati (The Haunting, 1963), il cortometraggio che più mi ha inquietato è firmato da Mario Bava. I tre volti della paura contiene un episodio basato su un racconto di Cechov: La goccia d’acqua. È il frammento di cinema più pauroso che abbia mai visto in vita mia […] Mario Bava è il mio preferito, perché ti penetra sotto la pelle, nell’inconscio, creando immagini brillanti che ti terrorizzano. È un maestro, e io non ho mai visto film come i suoi. Li scoprii nei drive-in quando frequentavo il college negli anni settanta e, anche se poi non li ho più rivisti per circa vent’anni, ricordo che mi colpirono molto. E mi spaventarono per quanto erano belli» (Sam Raimi).
Copia proveniente dalla Cineteca Griffith di Genova – Ingresso gratuito
 
lunedì 28
chiuso
 
martedì 29
ore 18.00
La morte viene dallo spazio (1958)
Regia: Paolo Heusch; soggetto: Virgilio Sabel; sceneggiatura: Marcello Coscia, Alessandro Continenza; fotografia: Mario Bava; musica: Carlo Rustichelli; interpreti: Paul Hubschmid, Madaleine Fischer, Fiorella Mari, Ivo Garrani, Dario Michaelis, Gérard Landry; produzione: Royal Film, Lux Film; origine: Italia/Francia; durata: 82’
Primo film italiano di fantascienza ed esordio nella regia per Paolo Heusch, La morte viene dallospazio è considerato come uno dei migliori film di genere nostrani. Il razzo XZ viene lanciato verso la Luna ma per un’avaria perde la rotta ed entra in collisione con alcuni asteroidi che conseguentemente puntano inesorabili contro la Terra. La fotografia e gli effetti speciali sono di Mario Bava. «La trama è ideata molto ingegnosamente e la tensione che l’azione suscita va aumentando e non viene meno fino alla conclusione» (Albertazzi).
 
ore 19.30
Terrore nello spazio (1965)
Regia: Mario Bava; soggetto: da Una notte di 21 ore di Renato Pestriniero; sceneggiatura: Ib Melchior, Alberto Bevilacqua, Callisto Cosulich, M. Bava, Anton Romàn, Rafael J. Salvia; fotografia: Antonio Rinaldi; musica: Gino Marinuzzi Jr.; montaggio: Antonio Gimeno, Romana Fortini; interpreti: Barry Sullivan, Norma Bengell, Angel Aranda, Evi Marandi, Fernando Villena, Stelio Candelli; origine: Italia/Spagna/Usa; produzione: Italian International Film, Castilla Cooperativa Cinematografica, American International Pictures; durata: 88’
La fantascienza all’italiana secondo Mario Bava, fra astronavi che scompaiono, un pianeta dai poteri magici, scheletri e alieni. «Per Terrore nello spazio non avevo nulla, ma veramente nulla a disposizione. Dico, c’era il teatro di posa, tutto vuoto e squallido perché mancavano i soldi: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce di plastica, residuato di qualche film mitologico, le ho prese e mezze in mezzo al mio set, poi, per coprire il pavimento, ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due uniche rocce, ho girato il film» (Bava). «Il film, a colori, ricorda per la scenografia alcune opere dell’espressionismo tedesco: suoni, luci, nebbie variopinte e sempre fluttuanti, melme in ebollizione, situazioni dense di mistero sono gli elementi che Bava ha mescolato per darci un discreto racconto di quel tipo di fantascienza che ignora i problemi della terra, ambientando personaggi e avvenimenti in mondi extragalattici e di pura fantasia» (Cavallaro).
 
ore 21.15
La ragazza che sapeva troppo (1963)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Ennio De Concini, Enzo [Sergio] Corbucci, Eliana De Sabata, con la collaborazione di Franco Prosperi, Mino Guerrini, M. Bava; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Leticia Román, John Saxon, Valentina Cortese, Dante Di Paolo, Robert Buchanan, Gianni Di Benedetto; origine: Italia/Usa; produzione: Galatea, Coronet; durata: 88’
Il capostipite del thriller all’italiana, nato come giallo rosa e trasformato da Bava in un film di suspense, in cui una ragazza americana, giunta in Italia, si trova, suo malgrado, coinvolta in un delitto e inizia a indagare in una Roma allora definita, da un anonimo recensore, «del tutto inedita, assurda, ma divertente». In realtà Bava svela il volto segreto e minaccioso della città che incute terrore con le sue geniali costruzioni (il quartiere Coppedè), i suoi appartamenti vuoti e misteriosi (Bava riesce a creare tensioni anche sfruttando la luce e non solo il buio, come nella geniale sequenza dell’appartamento dalle pareti bianche, modello per molto cinema a venire). «Penso che fosse un’idea intelligente. Era come una parodia del giallo, un giallo nel giallo. Questa ragazza che ha una fervida immaginazione e fantasia e viene suggestionata dal libro che sta leggendo» (John Saxon). «Una delle mie sequenze preferite del cinema di Mario Bava è quella che apre il film. Quando è uscito il dvd in italiano ho visto la scena: è apparentemente la stessa ma, allo stesso tempo, è completamente diversa da quella americana. Il dialogo è differente. La sequenza, in un bianco e nero meraviglioso, è costruita dalla macchina da presa che si muove su un aereo passeggeri. Mentre la macchina da presa li sfiora, si sente quello che pensano i personaggi inquadrati, cose del tipo: «Questo cibo fa schifo», «Vorrei qualcosa da bere», oppure «Non sopporto più mia moglie», c’è un uomo che sta contando mentalmente dei soldi e una donna che sogna di andare a fare shopping. Il movimento chiude sulla protagonista e quello che sta pensando è: «Cosa farò adesso di te? Prenderò questo coltello, lo infilerò nel tuo dannato cuore e te lo strapperò via!». Poi ti rendi conto che sta leggendo un romanzo! È la scena d’apertura più bella che abbia mai visto. Quando ho comprato la versione italiana, ho scoperto che non c’è traccia di tutto ciò. È la stessa scena, ma non ci sono i pensieri della gente. Una delusione» (Tarantino).
Copia proveniente dalla Farfalla sul mirino – Ingresso gratuito
 
a seguire
L’ospite delle due (1975, 58’ )
Programma televisivo della Rai andato in onda il 13 aprile 1975, condotto da Luciano Rispoli. Mario Bava, ospite in studio con Carlo Rambaldi, l’attrice Silvia Monelli e il critico (poi regista e collaboratore di Fellini) Gianfranco Angelucci, spiega ai telespettatori alcuni dei suoi straordinari trucchi.
Materiale gentilmente concesso da Rai Direzione Teche – Ingresso gratuito
 
mercoledì 30
ore 18.00
Gli invasori (1961)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Oreste Biancoli, Piero Pierotti, M. Bava; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Cameron Mitchell, Giorgio Ardisson, Ellen Kessler, Alice Kessler, Jacques Delbò, François Cristophe; origine: Italia/Francia; produzione: Galatea, Critérion Film, Société Cinématographique Lyre; durata: 98’
L’epopea dei vichinghi all’assalto della Britannia. «Senza nasconderselo, il produttore tentò di rifare The Vikings, diretto da Richard Fleischer […]. Meno verboso e più barbaro rispetto al modello grazie alla descrizione grafica della violenza (l’enorme carro ornato di teste di morti dove sono legati due torturati; Rutford trafitto dalle frecce come San Sebastiano), il film di Bava anticipa l’universo parossistico del western italiano. I drakar che si stagliano sullo sfondo di un cielo arancione, il dragone scolpito sulla prua che emerge lentamente dalla nebbia, le frecce incendiarie che illuminano l’oscurità sono tutte testimonianze di quanta poesia si nasconda nella macchina da presa che Bava punta sulla tragedia umana…» (Martinet). «Le mie navi vichinghe erano carcasse della pasta Buitoni messe in fila, con quella specie di becco davanti soltanto, dopodiché ghiaccio secco per fare nebbia e i macchinisti che ogni tanto gettavano secchiate d’acqua, il dolly che andava su e giù e fumo in teatro, fumoni bianchi, fumoni neri. Ci prese un’intossicazione che rimasi sei mesi a letto e per poco non andavo a finire al manicomio per l’avvelenamento. Nello Santi mi mandò il cassiere con un regalo di cinque milioni, quelle cose che oggi col cavolo che succedono» (Bava).
Copia proveniente dalla Cineteca Griffith di Genova – Ingresso gratuito
 
ore 20.00
Quante volte… quella notte (1969)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Carl Ross, Mario Moroni; fotografia: Antonio Rinaldi; musica: Lallo Gori; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Daniela Giordano, Brett Halsey, Pascale Petit, Dick Randall, Brigitte Skay, Valeria Sabel; origine: Italia/Germania Occidentale; produzione: Delfino Film, Hape Film; durata: 95’
«Una ragazza […] racconta di essere stata vittima di un tentato stupro, ma il presunto violentatore sostiene che le cose sono andate diversamente. Nemmeno un testimone riesce a far luce sulla verità. Bava, molto più a suo agio nel genere horror, tenta qui una ben poco convincente incursione nel thriller dai toni pirandelliani, ambizioso ma assai sconnesso nella struttura narrativa. Iniziato nel 1969, il film è uscito quattro anni più tardi per problemi di censura» (Mereghetti). «Ho anche fatto un film spinto. Uno solo, niente male. Non lo nego. Si tratta di Quante volte… quella notte. L’ho fatto in un’epoca in cui in Italia, se rifiutavi di girare un film erotico, ti prendevano per omosessuale. Era basato sullo stresso principio di Rashômon: la notte di due coppie, raccontata da ciascuno dei partner. Una volta tanto le scene di sesso erano giustificate. Ma la censura l’ha bocciato. Il mio amico Riccardo Freda faceva parte della Commissione. Per salvare il film ho proposto in un secondo tempo di inserire una messa nera. Sono ancora in attesa di risposta» (Bava).
 
ore 21.45
Diabolik (1968)
Regia: Maria Bava; soggetto: Angela e Luciana Giussani, Dino Maiuri, Adriano Baracco; sceneggiatura: D. Maiuri, Adriano Baracco; fotografia: Antonio Rinaldi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Romana Fortini; interpreti: John Philip Law, Marisa Mell, Michel Piccoli, Adolfo Celi, Claudio Gora, Terry Thomas; origine: Italia/Francia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica, Marianne Productions; durata: 101’
Trasposizione cinematografica del celebre fumetto delle sorelle Giussani. L’ispettore Ginko dà la caccia a Diabolik che, con l’aiuto di Eva Kant, ha rubato dieci milioni di dollari. Bava non ne aveva un grande ricordo (anche perché i tempi di lavorazioni, particolarmente lunghi, erano inusuali per lui): «Per Diabolik avevo a disposizione pochissimi mezzi, l’ho finito con circa duecento milioni di spesa, un’inezia. Si figuri che ho dovuto arrangiarmi a inventare tutto con i trucchi perché la produzione non mi forniva niente, ma proprio niente. Ha visto la capanna di Diabolik in campagna, il suo rifugio, il laboratorio, l’autorimessa…? Le giuro, erano tutti modellini, fotografie che io ritagliavo al momento, improvvisando per rimediare allo squallore della scena e incollavo su un vetro davanti alla macchina da presa». Invece Dino De Laurentiis che produsse il film serba un grande ricordo del regista: «Diabolik era uno di quei film che senza gli effetti speciali non si sarebbe potuto realizzare. All’epoca non c’era la tecnologia che c’è oggi, per esempio la computer animation, che ci consente di fare quasi tutto. All’epoca era necessario usare la fantasia e scelsi Mario Bava perché aveva quest’eccezionale capacità nel realizzare gli effetti speciali. Era un grande professionista e riusciva a risolvere problemi complessi in chiave tecnica con un’agilità eccezionale. Oggi Mario Bava dovrebbe essere un mito, un uomo che tutti dovrebbero ricordare per le sue qualità umane, ma soprattutto per la sua voglia e la sua passione di fare del cinema». Piena esplosione pop, con l’icona Marisa Mell, scelta di ripiego per la parte di Eva Kant, assegnata inizialmente a Catherine Deneuve, la quale però non voleva lasciar vedere neppure i polpacci e fu rispedita al mittente. Poco dopo esplose con Bella di giorno «dove se non mostravano al microscopio la sua epidermide, poco ci mancava! Valli a capire gli attori!» (Bava).
 
giovedì 31
ore 18.00
La Venere d’Ille (1978)
Regia: Mario e Lamberto Bava; soggetto: dal racconto omonimo di Prosper Mérimée; sceneggiatura: L. Bava, Cesare Garboli; fotografia: Nino Celeste; musica: Ubaldo Continiello; montaggio: Fernando Papa; origine: Italia; interpreti: Marc Porel, Daria Nicolodi, Fausto Di Bella, Adriana Innocenti, Mario Maranzana, Diana De Curtis; origine: Italia; produzione: Pont Royal Film Tv, Rai 2; durata: 60’
Film per la tv trasmesso il 27 maggio 1981 per la serie I giochi del delitto – Storie fantastiche dell’Ottocento. La storia, ambientata nella provincia francese, ruota attorno a una statua di bronzo che raffigura Venere. «Bava è riuscito a cogliere anche molte delle insenature del racconto e a scrivervi dentro una splendida rappresentazione di una cultura contadina e mediterranea nella quale di vedono convivere e intrecciarsi elementi solari e lunari (il lato materiale, razionale, religioso col lato lunare, irrazionale, magico, del mondo e della cultura contadina mediterranea). Pagine colte che non restano inerti, fini a se stesse, ma che diventano in Bava occasione di racconto, pretesto narrativo. È, infatti, proprio cogliendo questo tratto culturale del mondo rappresentato che Bava riesce a giustificare diegeticamente e linguisticamente la splendida zoomata che collegando la luna alla terra dà il via a quella magistrale ultima parte del racconto, tutta giocata sul perfetto uso dell’esitazione fantastica, in cui la terra e il cielo, il razionale e l’irrazionale, si congiungono per determinare lo choc fantastico grazie al quale il racconto raggiunge il suo climax e il suo senso» (Gualtiero Pironi). «Quest’opera finale di Bava è tra i capolavori di un cinema che non si risolve mai in equilibri conclusi. I costumi ottocenteschi si aggiungono ai corpi con la stessa libertà delle ricostruzioni rosselliniane, e sul rapporto verità-finzione dei corpi irrompono flagranze di dettagli carnalmente presenti oltre la minacciosa fermezza statuaria. Se l’horror di Mastrocinque o Ferroni conferma fascinosamente la natura del manichino, Bava può sì spingere la presenza romantica fin dentro i mondi classici (il greco, l’orientale, il nordico, persino quello postsettecentesco di Mérimée o quello dell’orizzonte russo) ma senza rinunciare a una trasparenza che riesce consunstanziale quanto quello rosselliniana alla natura televisiva» (Germani).
Copia proveniente dal Museo Nazionale del Cinema di Torino
 
a seguire
Shock (1977)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Lamberto Bava, Francesco Barbieri, Paolo Brigenti, Dardano Sacchetti; fotografia: Alberto Spagnoli; musica: I Libra; montaggio: Roberto Sterbini; interpreti: Daria Nicolodi, John Steiner, David Colin jr., Ivan Rassimov, Nicola Salerno; origine: Italia; produzione: Laser Film; durata: 92’
Dora ritorna nella sua vecchia casa insieme al secondo marito e al figlio. Accadono fatti sconvolgenti legati al suicidio del primo marito. «A partire dall’inizio, la macchina da presa a livello del pavimento che esplora lentamente la desolazione di un ambiente […] il film porta il segno d’una mano maestra: ed il seguito, con il suo intrecciarsi di sesso incestuoso e subitanei squarciamenti di putrefazione e violenza, è messo in scena con un’ambiguità di attrazione e repulsione che nessuno, in futuro, sarà capace di ripetere» (Francesco Troiano). «Mi ricordo che c’era anche il problema del fantasma di Shock, sembrava non ci fosse il verso di farlo, non c’erano soldi. Shock è stato girato in cinque settimane con 120 milioni. Per finirlo abbiamo lavorato anche sedici al giorno. Per realizzare il fantasma, Mario costruì un cartoncino ritagliato con le sue mani d’oro, e lo illuminò con delle luci speciali, rendendolo sorprendentemente efficace. Aveva anche una collezione incredibile di “vetri acqua” degli anni trenta: quasi tutti gli incubi che ha Dora, il mio personaggio, erano ottenuti attraverso delle deformazioni provocate da questi vetri, sembrava che il mare ci trascolorasse dentro. Li ha usati anche per l’effetto della casa che arde alla fine di Inferno di Dario Argento. Nessuno sapeva far bruciare questo enorme grattacielo newyorkese, ci voleva un effetto speciale particolare e lui, ridisegnandolo su un vetro, riuscì a farlo» (Daria Nicolodi).
 
ore 20.45
Tavola rotonda moderata da Pierpaolo De Sanctis con Lamberto Bava, Renato Cestiè, Ernesto Gastaldi, Filippo Ottoni, Giona A. Nazzaro, Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni
 
Nel corso della tavola rotonda sarà presentato il volume Kill Bill Kill! Il cinema di Mario Bava, a cura di Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni,un mondo a parte, Roma, 2007
 
a seguire
Ecologia del delitto (1971)
Regia: Mario Bava; soggetto: Dardano Sacchetti, Franco Barberi; sceneggiatura: M. Bava, Joseph McLee [Giuseppe Zaccariello], Filippo Ottoni, [non accreditati Sergio Canevari, Francesco Vanorio]; fotografia: M. Bava; montaggio: Carlo Reali; interpreti: Claudine Auger, Luigi Pistilli, Claudio Volonté, Laura Betti, Leopoldo Trieste, Chris Avram; origine: Italia; produzione: Nuova Linea Cinematografica; durata: 85’
Prima versione dello straordinario film di Bava, che reca come titolo Ecologia del delitto, voluto dal produttore Giuseppe Zaccariello, per cavalcare l’onda ecologista, e con la battuta finale «così imparano a fare i cattivi» pronunciata dai bambini (autentiche stelle del cinema italiano anni Settanta) Nicoletta Elmi e Renato Cestiè, al suo esordio. Il titolo fu poi cambiato con Reazione a catena (Ecologia del delitto) e la battuta ammorbidita, cambiando il senso del finale del film. Tredici delitti in una baia, sulla quale grava l’ombra di una speculazione edilizia in atto, contro la quale la natura (o chi per lei) mette in atto le sue forme di autodifesa: un congegno narrativo perfetto in un film di forte impatto visivo in cui Bava gioca con gli elementi naturali e con la luce, suggestionando lo sguardo dello spettatore. Film imitatissimo in America (Venerdì 13 su tutti), circondato da un culto del tutto meritato, grazie, oltre che al plot, alla mano ispirata di Bava (specie nelle sequenze dei delitti, costruite con una cura, per una volta, argentiana), a un cast notevole in cui ogni attore regala un’interpretazione indimenticabile (splendido cameo di Isa Miranda nella parte dell’anziana contessa). «Non saprei raccontare la trama, ma è uno di quei film che meno li capisci e meglio è. Mi piace soprattutto un’inquadratura venuta fuori quasi per caso. Prima l’immagine è sfocata, si ha l’impressione di vedere qualcosa che sembra il sole. E invece no, si tratta di un occhio, un occhio immenso che occupa l’intero schermo» (Bava). Giuseppe Zaccariello, produttore improvvisato ma geniale, reduce dai fasti di A ciascuno il suo di Petri ed Escalation di Faenza, aveva pretese autoriali e firmò la sceneggiatura sotto pseudonimo.
Al termine del film sarà proiettato il finale di Reazione a catena (Ecologia del delitto).
Ingresso gratuito
 
Centro Sperimentale di Cinematografia
via Tuscolana, 1520 – 00173 Roma
tel.: 06.72294260 – fax : 06.72294322
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