BENVENUTI NELL'ERA DELLA RAZZA UMANA, di Emiliano Baglio

"…Millenni di sangue versato a concime/millenni di imperi e regimi, millenni di regni di Dio…Non sono scrupoloso al riguardo di Dio/ è a nostra immagine, somiglia a noi…".

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"…Il Buddha percepisce il vero aspetto del triplice mondo esattamente com'è. Non vi è nascita né morte, non vi è esistenza in questo mondo né estinzione. Non è reale né illusorio, non è così né diverso. Non è così come viene percepito da coloro che vi dimorano…"
Sutra del loto: Durata della vita del Buddha.

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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1) Religione e predestinazione.

"…Il Signore Iddio adunque prese l'uomo e lo collocò nel giardino delle delizie , affinché lo coltivasse e lo custodisse e gli comandò dicendo: "Mangia di ogni frutto del paradiso, ma non mangiare del frutto dell'albero della scienza del bene e del male, perché in qualunque giorno ne mangerai, certamente morrai"…Il serpente disse allora alla donna: "No, voi non morirete affatto. Dio sa di fatto che il giorno in cui ne mangerete i vostri occhi si apriranno e voi sarete come Dio conoscitori del bene e del male". Allora la donna vide che il frutto dell'albero era buono da mangiarsi e bello a vedersi e desiderabile per acquistare l'intelligenza; quindi la donna prese il frutto e ne mangiò e ne diede a suo marito ed egli ne mangiò…"
Genesi 2, 15-17. 4, 4-6
Non vorremmo certo lasciarci tentare dall'interpretare questi passi della Sacra Bibbia sul peccato originale.
Sappiamo però di certo che Gesù verrà per salvarci anche da questo peccato originale.
Un peccato che, generalmente, viene interpretato per lo più come una scoperta della propria sessualità o come un eccesso di orgoglio: l'uomo tentò di elevarsi al livello della divinità e per questo fu punito e scacciato dal paradiso terrestre.
Ma possiamo provare a ribaltare l'interpretazione e ad essere orgogliosi di questo nostro atto di ribellione.
Il peccato originale attraverso l'orgoglio ci libera dall'innocenza e ci rende conoscitori del bene e del male.
Questa conoscenza ci rende veramente umani; prima del peccato l'uomo era sì puro ma pagava questa sua purezza col prezzo più alto: l'incoscienza di sé.
Non conoscendo l'origine del male e del bene non poteva scegliere quale via seguire.
Solo col peccato originale l'uomo prende in mano il suo destino.
Da questo momento in poi seguire la legge del Signore sarà una scelta e non più una condizione innata.
Solo nella scelta assume valore la vita.
Sospetto che Dio (che tutto vede e tutto sa) volesse che la propria creatura prediletta peccasse, perché solo così l'uomo avrebbe potuto scegliere la propria strada.
Ogni genitore con sofferenza e dolore vuole che il proprio figlio faccia le sue scelte, cadendo e rialzandosi, come avrebbe potuto essere diversamente per il più amorevole dei genitori ?
Quello che poi ci interessa sottolineare è che è la donna a compiere questo gesto.
Questo varrà per sempre a marchiarla come la più infame delle peccatrici.
Di questa sua infamia che ci ha reso la libertà, noi che siamo qui su questa terra e che tentiamo ogni giorno di renderla migliore, noi non possiamo che esserle grati.
Dunque eccoci partiti all'orizzonte verso il mondo, abbiamo scelto di fare la storia.
Il paradiso terrestre ricorda la sicurezza prenatale, il suo asettico conforto.
La vita è sofferenza, l'atto stesso del nascere è un atto di dolore, la vita ci accoglie così e per la vita, in un modo o nell'altro, tenteremo sempre di tornare lì, nell'unico paradiso terrestre che abbiamo potuto conoscere: il ventre materno.
Ma qui su questo mondo che altro possiamo fare se non cercare ogni giorno un paradiso terreno ?
"…Questa è la vita: nel dramma è la sua e nostra nobiltà. Scegliere quale dolore: altro spesso non possiamo, per onorarla e tentare la bontà e la felicità…" (Marco Pannella: L'agnello, lo zigote e Pasolini).
Siamo stati scacciati dal paradiso terrestre, oppure abbiamo scelto di andarcene ?
Io propenderei per la seconda ipotesi.
La nostra libertà poteva esprimersi solo nel momento in cui avremmo operato una scelta, qualunque essa fosse.
Dio ci chiedeva di obbedire alle sue leggi ma non potevamo farlo perché è la vita stessa a costringerci continuamente a scegliere.
Nei suoi attimi più insignificanti, nei suoi gesti più quotidiani anche e soprattutto per coloro che fingono di non schierarsi mai ed invece decidono per sé e per molti altri.
Ecco il nostro dramma, ecco la nostra nobiltà.
Non c'è altro da fare che scegliere.
Mi piace sognare di poter essere un giorno cosciente di tutto quello che faccio perché, senza trionfalismi o ingenuità, i miei atti possono cambiare il mondo (almeno il mio e non solo il mio).
Il cristianesimo ci incatena al senso di colpa.
La coscienza del dolore è qualche cosa di diverso e può portare alla liberazione.
Per il cristianesimo siamo tutti peccatori, prima ancora di nascere, per questo verrà un uomo a salvarci.
Nella Bibbia tutti sono predestinati, un Dio li chiama a compiere il loro destino, li richiama all'obbedienza.
Il Messia, il liberatore è colui che accetta la propria missione senza discutere, colui che incarna su di sé la legge.
Eppure anche Gesù, per un momento nella disperazione, si ribellò al Padre.
2) I vostri occhi si apriranno e voi sarete come Dio conoscitori del bene e del male.

"…L'icononauta ha avuto e ha molti poteri…voler dominare e colonizzare il tempo e lo spazio…veder rappresentata la propria memoria e il proprio sapere…poter usare gli occhi come remi, o ali, per navigare liberamente, alla velocità della luce…aspirare alla totalità della visione, cercando di giungere a uno sguardo unitario che gli consenta di abbracciare il globo terrestre…" (Gian Piero Brunetta: Il viaggio dell'icononauta).
Il cinema.
Il cinema ci ha aperto gli occhi e come Dio ci ha resi, tutti, onnipresenti ed onniscienti.
"…Per me e per molti altri della mia generazione il cinema allora era tutto. Tutto…" (Leonardo Sciascia: C'era una volta il cinema).
"…Guardi il cinema come un bimbo per l'avventura, per la piccola emozione estetica e mnemonica. E godi, godi immensamente. Sarà così a settant'anni se ci arrivi…" (Cesare Pavese: Il mestiere di vivere).
Per tutti noi cinefili, icononauti, non c'è altro modo di dirlo: il cinema è tutto.
Lo spettatore cinematografico è un vigliacco, un timido, uno che ha paura della vita perché la vita non è mai un film e le nostre storie non si dipanano mai con quell'immediatezza.
Siamo prigionieri di un rito che ci piace immaginare collettivo e che invece è sempre solitario, eppure cerchiamo compagni di avventura, non ci piace andare al cinema da soli, eppure quando lo schermo si illumina di altre immagini (venute da chissà dove) abbiamo occhi ed orecchie e corpo solo per quelle.
A nulla vale il chiacchiericcio fuori, tornati alla "vita": le emozioni le abbiamo vissute solo noi, da soli.
Ci piace la bidimensionalità dello schermo, il suo incatenarci alle avventure di altri, la sottomissione passiva dell'identificazione o dello spaesamento (uno spaesamento recente: Fortini/Cani, uno più antico: Koyaanisquatsi; e la mia mente se ne è andata per gli affari suoi).
Il cinema ci consola, ci culla, ci anestetizza, sin da quando (ne) abbiamo memoria.
Non riusciamo ad immaginare sostitutivi della ritualità collettiva della sala cinematografica, amiamo pateticamente la celluloide, abituati a malapena al fatto che essa non bruci più vite.
Il cinema è esso stesso il regno della possibilità, dell'imprevedibile, perché potremmo essere noi quelli lì sullo schermo, ma sì siamo proprio noi, anche solo per un attimo, poi basta luci in sala.
Il sogno finisce, l'incubo ricomincia
Per questo pezzo di mondo, intriso di cattolicesimo anche nella sua più ostinata laicità (al di là della possibilità di coltivare la propria laicità nell'espressione di una religione altra), il destino assume le fattezze ineffabili del figlio di Dio e dei figli di Satana.
Essi sono i predestinati per eccellenza.
Gesù accettava il suo destino di farsi sangue e carne per morire e con la sua morte salvarci.
Tutto nella sua vita sembrava essere stato già deciso.
Eppure Gesù per morire aveva bisogno di rivolgersi all'uomo.
Ancora una volta stava all'uomo decidere, scegliere, il peso più grande, l'attuazione del destino di quell'uomo divino stava nelle mani di un piccolo traditore per trenta denari (la madre di tutte le tangenti): Giuda.
Giuda assume su di sé il suo destino, deve tradire per permettere al miracolo di avverarsi.
Un destino che è ancora più spaventoso del compito che aspetta Gesù che pure sulla croce griderà al Padre la sua disperazione per essere stato abbandonato: "…Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato ?…" (Il Vangelo secondo Marco 1, 34).
Giuda è l'ennesima figura di uomo posseduto dal dio e che, non conoscendo il suo destino, scambia la cupidigia per blasfemia.
Forse invece era quello che ci credeva di più nella rivoluzione dell'amore.
La morte di Gesù era nell'aria con tutto il suo corredo storico, sociale, politico, ma solo un uomo inconsapevole della sua missione, solo un uomo che diveniva strumento del volere divino senza esserne stato avvertito, solo quest'uomo poteva liberare la catastrofe, liberarci.
Chissà se gli hanno fatto sconti e l'hanno accolto in Paradiso, oggi che si può baciare chiunque e rinnegare tre volte e più prima che il gallo canti e divenire eroi.
Di questo dramma che è il nostro, lo schermo, il cinema non ci ha restituito (quasi) niente.
Il sangue, la carne, il dolore, la polvere di una terra arsa dal sole e che porta nei suoi sassi una disperazione genetica anche e soprattutto quando questi vengono lanciati contro carri armati "innocenti", nostri figli che noi abbiamo creato per lavarci le mani dall'orrore di aver pensato che "Arbeit macht frei", di tutto questo sullo schermo non resta traccia.
Non ricordo i Gesù dello schermo, sono tutti uguali, hanno tutti la pelle bianca, gli occhi e la pelle ed i capelli chiari, perfetti ariani lanciati tra semiti ed arabi, chissà come.
Sono alieni, come alieno è il Messia di Starman.
Ed invece più che alieni dovrebbero essere alienati, con gli occhi iniettati di Dio
Il Cristo che ci propone la chiesa, l'esangue, placido "Salvatore" – l'uomo che sorride benevolo a un gruppo di bambini, o pende serenamente dalla croce – toglie a Cristo il suo dolore possente e creativo…In tal modo la chiesa toglie a Cristo la sua umanità, proponendoci una figura che forse possiamo "lodare", ma con cui non possiamo metterci in relazione…" (Nick Cave: Introduzione al Vangelo secondo Marco).
Cristo al cinema non mi appare diverso da questo.
La triste disperazione dell'obbedienza al proprio destino l'assumeva su di sé, sul suo corpo, nella sua celluloide Pier Paolo Pasolini.
Sino al corpo deriso nella pineta di Ostia, poco dopo il pugno chiuso di Salò.
(Vi è in Salò una sequenza di quelle che non si dimenticano. I fascisti irrompono in una stanza dove un giovane sta facendo l'amore con una negra. Il giovane sorpreso si alza dal letto e saluta i fascisti col pugno chiuso. Poi viene fucilato. La vita e la morte di Pasolini stanno tutti lì per chi li sa vedere.)
L'asprezza del paesaggio palestinese è tutto nell'asprezza del volto del suo Cristo in Il vangelo secondo Matteo, nei suoi movimenti di macchina sbagliati (la carrellata sui dodici apostoli in cui la mdp sfugge di mano a Pasolini, costretto ad un brusco contro-movimento verso destra).
Ponzio Pilato si lava le mani, rinuncia al farsi e disfarsi della storia, si tira fuori, è lui l'unico essere spregevole, così ancora oggi si mandano a morire gli innocenti: dandoli in pasto alla folla.
Il cinema di Pasolini ci inchioda alla storia, ci rammenta le nostre responsabilità umane.
Tutto il dramma della nostra esistenza è racchiuso nella morte di Stracci, sulla croce per aver mangiato La ricotta.
E tutto il dramma del nostro mondo, della nostra brava coscienza è nella passeggiata di Ninetto Davoli per Via Nazionale in La sequenza del fiore di carta.
Troppo innocente per sopravvivere nell'orrore del mondo moderno, troppo puro e fastidioso nella sua gioia di vivere Ninetto muore.
La voce di Dio (la voce di Pasolini) lo uccide.
Ricordo, ora che ci penso, un altro Cristo, trovato dove mai avrei pensato ne I giardini dell'Eden di Alessandro D'Alatri.
Un Cristo con l'improponibile volto di Kim Rossi Stuart, eppure finalmente vitale, ribelle, struggente.
Un Cristo che rinuncia alla meditazione solitaria in uno sperduto monastero nel deserto e sente il bisogno di scendere nel mondo per cambiarlo con l'amore.
E' il Cristo che nessuno ci ha mai raccontato, quello prima dei 33 anni e che anche la Bibbia non ci narra.
Questo Cristo vorremmo riscoprire, al di là delle nostre convinzioni o delle nostre fedi.
Più che al cinema nella nostra vita.

3) Genova…per noi.
"…Poteva persino non sapersi esprimere oltre considerando sufficiente aver detto «Siamo tutti uguali»…Ma dicendo «Siamo tutti uguali», Cristo aveva anche detto «Ammazzatemi! Non potete che ammazzarmi, perché io vi pongo sopra un piano che voi rifiutate, il piano che vi nega di essere gli arbitri, i despoti tra persone che sono uguali.»…" (Cesare Zavattini: Cristo e i cristiani).

Tutta la morale della storia che abbiamo tentato di narrare è racchiusa nella parole di Zavattini, lo scandalo di Cristo consiste proprio nell'averci ricordato la nostra insopprimibile, insopportabile ed inaccettabile eguaglianza.
Ritrovo lo stesso scandalo nel buddismo di Nichiren Daishonin quando mi ricorda che ognuno di noi è un Buddha, che sia l'uomo più virtuoso o l'assassino più feroce, fosse anche solo grazie ad una particella del suo corpo egli possiede l'illuminazione dentro di sé.
L'umanità sembra predisposta al rifiuto di questa verità così sconvolgente, da sempre ha sentito l'esigenza di porsi al di sopra del mondo, si è arrogata il diritto di giudicare, di poter disporre del mondo con noncuranza e menefreghismo emettendo condanne, come se il destino del pianeta che ci ospita non ci riguardasse, quasi fossimo entità indipendenti da ciò che ci circonda; come se il dolore e la distruzione che causiamo non ci riguardasse, come se le cause e gli effetti fossero indipendenti tra loro.
Avevamo bisogno di un sogno, il sogno dell'onnipotenza, avevamo bisogno di sentirci noi degli dei, capaci di determinare e decidere il destino degli altri.
Per fare questo, per sfogare la nostra misera condizione di infinitesimali particelle del cosmo, da sempre siamo andati alla ricerca di capri espiatori.
Cristo in questo circolo vizioso è la prima vittima, il primo agnello che abbiamo ucciso ed immolato sull'altare affinché la smettesse di tormentarci con la sua umanità; da allora e per sempre sono stati i deboli, gli indifesi, coloro che non avevano voci abbastanza forti per farsi sentire, sono stati loro le nostre vittime.
Che fossero altri esseri umani oppure piante, animali, paesaggi, luoghi; non ce n'è mai importato nulla presi com'eravamo dalla nostra foga distruttrice.
Potevamo fare tutto e nessuno mai ci avrebbe chiesto il conto.
Oggi, invece, questo conto è qui sotto i nostri occhi.
Che prenda le fattezze di un pianeta morente o si incarni nel volto di qualche bambino che muore di fame in un qualsiasi paese del terzo mondo non ha importanza; quello che è certo è che le mura dorate del nostro benessere non reggono più l'urto della disperazione proveniente da così tanti luoghi del mondo; le nostre mura si sgretolano e lasciano sempre più intravedere la violenza sotterranea sulla quale le abbiamo edificate.
Così non ci sono più innocenti, non ci sono più colpevoli; siamo tutti vittime e a nulla vale indicare con nome e cognome i nostri nemici perché essi sono come noi.
Sembra essere questo il dramma della nostra vita oggi.
Il cinema in tutto questo rappresenta un bene effimero e superfluo, un gioco estetico, un bisogno aggiunto dal quale comunque non sappiamo e non vogliamo liberarci.
Eppure siamo icononauti e dal cinema alle volte aspettiamo parole nuove che sappiano svegliarci.
Una parte del cinema contemporaneo sembra riuscire a cogliere il disfacimento esistenziale che ci circonda, sembra riuscire a riflettere su di esso lanciando nel mondo grida, piccole, forse non risolutive, certamente non necessarie né richieste, eppure essenziali.
Vorremmo dunque citare alcuni frammenti di questo discorso, lasciando ai lettori il compito dell'indagine; il tempo è tiranno, lo spazio anche.

Cantavano un tempo i CCCP "Madre di Dio/e dei suoi figli/ Madre dei padri e delle Madri/Madre…oh Madre o Madre mia/l'anima mia si rivolge a TE" (CCCP: Madre).
Maria, la madre di Gesù è la donna che consola gli inconsolabili e solleva gli ultimi, la madre cui si rivolgevano e si rivolgono i più diseredati, i più poveri, gli analfabeti del mondo, invocando pietà e benedizione.
Maria rivive per noi in tutte le donne che silenziosamente, spesso nel martirio e nella sofferenza, hanno costruito e costruiscono un mondo migliore.
Sembra che l'uomo sia nato per uccidere, poiché la donna è nata per partorire.
"…è cavità di Donna che/crea il Mondo/veglia sul Tempo lo protegge/contiene Membro d'Uomo/che s'alza e spinge/insoddisfatto poi distrugge…" (CSI: Del mondo).
Lars Von Trier ci propone queste donne, prepotentemente, irritando il femminismo becero, scandalosamente e cristianamente.
I suoi ultimi tre film Breaking the waves – Le onde del destino-, Idiots e Dancer in the dark sono le storie di tre donne che assumono su di sé la sofferenza del mondo.
Immolano il loro corpo all'amore lasciandosi violentare ed uccidere purché dal loro sacrificio rinasca una vita e per questo vengono assunte in cielo (Le onde del destino).
Sono le uniche capaci di assumere su di sé, nella carne, il dolore della perdita di un figlio, rifugiandosi nell'idiozia (Idiots).
Sbattono in faccia alla borghesia il loro dolore e con disprezzo ed estrema violenza strappano la maschera dell'ipocrisia alla società (con quella violenza estrema e radicale che è la non-violenza).
E come Björk in Dancer in the dark si avviano verso il patibolo, dopo essersi sacrificate per il loro figlio.
Vanno incontro alla morte cantando e mentre cantano accarezzano e consolano gli altri condannati a morte (tutti uomini, non a caso).
Sono loro coloro che consolano gli inconsolabili.

"…Il fascismo è stato in un certo senso l'autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell'unanimità, che rifugge dall'eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo…" (Carlo Rosselli: Socialismo liberale).
In un tempo lontano scese sulla terra un grande monolite nero ad accendere la scintilla dell'intelligenza, così, quando una scimmia comprese che un osso poteva divenire un'arma, cominciò il nostro cammino verso le stelle.
Eccola la particella impazzita che ci ha reso uomini: la violenza.
L'intero edificio estetico che è il cinema di Stanley Kubrick sembrerebbe oggi, guardato con nuovi occhi, girare sempre intorno a questa ossessione; che la violenza sia il nostro naturale ed insopprimibile istinto maggiore.
La scimmia di 2.001 non è diversa dai drughi di Arancia meccanica, suoi figli naturali.
La violenza per Kubrick è ovunque, negli orrori della guerra, nelle pieghe della storia, nei rapporti umani, tra le persone.
Una violenza che prende fattezze e nomi diversi, eppure sempre presente, sempre vigile.
Certo siamo cresciuti noi piccole scimmie ed abbiamo lasciato il paradiso terrestre, siamo scesi nel mondo ed abbiamo fatto la storia.
Abbiamo imparato a distinguere il bene dal male e ad adoperarli entrambi, ce ne siamo fregati del fatto che eravamo uguali ed abbiamo cercato sempre e comunque un capro espiatorio.
Che fosse debole e che con la sua innocenza ci ricordasse la nostra infamia.
Abbiamo diviso il mondo in due: da una parte i nobili che come nel racconto di Poe La maschera della morte rossa continuano le loro orge credendosi immortali, dall'altra il mondo.
Da una parte la buona borghesia di Eyes wide shut che si rinchiude a scopare in ville fastose, fuori le prostitute che muoiono di A.I.D.S.
Da una parte i fascisti di Salò che si divertono nel loro estremo sadismo, dall'altra milioni di innocenti mandati al macello.
Oggi, come ieri, nulla sembra essere cambiato.
La nostra realtà assomiglia sempre di più a quella descritta da Carpenter in 1997 fuga da New York ed in Fuga da Los Angeles.
Lo abbiamo visto all'opera questo potere arrogante, violento e fascista; l'abbiamo visto costruire mura di ferro e cemento e metterci i loro sbirri a proteggerle, come nel medioevo hanno preteso di lasciare fuori dalla porta la plebe, il popolo; hanno creato la loro bella zona rossa, ci si sono rinchiusi dentro e per festeggiare hanno deciso di battezzarla nel sangue.
Invece di cercare di entrare avremmo dovuto assediarli, impedirgli di uscire, prenderli per fame e sete; che magnifico scherzo sarebbe stato: ci saremmo ripresi il mondo e la vita.
Quello che abbiamo imparato è che siamo esseri umani, nati liberi ed uguali tra di essi e come esseri umani non possiamo tollerare un poliziotto che ti ficca un manganello su per il culo o che ti costringe a cantare Faccetta nera o ti costringe a baciare la foto del Duce, ti piscia in faccia, ti spacca le ossa durante il sonno, ti prende a calci in testa mentre sei a terra sanguinante, ti spara in testa.
Forse tutto questo non ha nulla a che vedere col cinema, eppure il cinema c'era lì a Genova, negli occhi dei cineasti presenti come in quelli di migliaia di videocamere, pronti a riprendere e restituire la realtà, la verità dei fatti.
Anche in questo non siamo ancora in grado di valutare gli effetti prodotti dalle giornate genovesi che pure ci restituiscono il sogno di Zavattini e Vertov di un esercito di cineoperatori, sentinelle della libertà e della verità.
Sta a noi raccogliere la sfida riuscendo a sognare nuovi mondi e nuovi paesaggi per tutti gli innocenti di celluloide e tutti quelli in carne ed ossa.

"Benvenuti nell'era della razza umana" (John Carpenter: Fuga da Los Angeles).

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