#Berlinale2016 – A Lullaby to the Sorrowful Mystery, di Lav Diaz

Nell’arco delle otto ore “succede” ben poco, ma semplicemente perché i fatti rifiutano di essere immagazzinate nell’inquadratura, stanno nell’indistinzione delle parole e dei racconti. In concorso

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Tutto parte da José Rizal, l’eroe assoluto, il poeta, scrittore, medico, linguista, padre spirituale della rivoluzione filippina e dell’identità nazionale. Siamo alla vigilia della sua esecuzione, ordinata dalle autorità spagnole, intenzionate a reprimere duramente le rivendicazioni indipendentiste. E a disperarsi per le sorti del grande uomo, ecco alcuni giovani, Basilio, Iragani… Personaggi di “fantasia”, che però non sbucano dal nulla. Vengono dai romanzi stessi di Rizal, monumenti della letteratura filippina (sebbene scritti in spagnolo come una sfida anticolonialista): Noli me tangere e, in particolare, la sua prosecuzione, El Filibusterismo. I personaggi piangono il loro creatore, in un intreccio che già si apre alla vertigine. È il 30 dicembre 1896, dice la storia. All’alba Rizal è fucilato. E i suoi esecutori, per lo più filippini sotto il giogo del padrone, urlano viva la Spagna. È storia, già… Le cronache abbondano. Esistono anche immagini della morte di Rizal. Ma Lav Diaz non la mostra, la lascia fuoricampo. Basta inquadrare le persone che vi assistono. Lo stesso eroe non appare mai. Rizal è reale, ha braccia, gambe, concretezza storica. Eppure non lo è, allo stesso tempo. È solo un nome che viene ripetuto come un mantra, un essere senza più corpo, quindi liberato della sua esistenza materiale e trasformato in pura idea. È proiettato in un’altra dimensione, mitica, non inquadrabile, non tramutabile in immagine. Al pari dell’altro eroe della rivoluzione, Andrés Bonifacio y de Castro, il leader del Kapitunan, il cui corpo viene vanamente inseguito per giorni dalla moglie Gregoria de Jesus e per interminabili ore da noi spettatori che, nel fitto intrico della foresta, non riusciamo più a distinguere i vivi, i morti, i non nati. Chi si offre allo sguardo, invece, ben visibile, è Simoun, al secolo (letterario) Juan Crisóstomo Ibarra, il protagonista tormentato dei romanzi di Rizal. Lo vediamo come riappare ne El Filibusterismo, occhiali colorati, barba, eleganza sportiva, una valigetta piena di danaro. Simoun conserva il segreto e il senso della coscienza rivoluzionaria profonda, pur dopo aver ceduto al richiamo della violenza e della vendetta. Coscienza che rischia di perdersi nei fumi dell’oppio, che viene ferita a morte e si trascina nel mezzo della foresta, che si logora nell’estenuante protrarsi delle discussioni sull’arte, la storia, la politica, l’ideale e la pratica. E che pure riacquista la sua integrità nella definizione del gesto estremo, nella confessione in cui l’individualismo egoistico della fantasia si riconcilia con l’urgenza oggettiva del mondo.

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a lullaby for the sorrowful mysteryNella densità dei riferimenti, si rischia di impazzire a voler rintracciare la coerenza di tutti i fili. Ma a Lav Diaz, ovvio, questa coerenza sembra interessare relativamente. Il punto, semmai, è proprio questa impasse della narrazione, che sembra sempre sul punto di aprirsi, per poi avvilupparsi su se stessa e ricadere a terra. Sta in questa giustapposizione e linea di increspatura tra la Storia e il suo mito, tra le idee, la loro affermazione o negazione, e la loro messa in pratica. Nell’arco delle otto ore di A Lullaby to the Sorrowful Mystery “succede” ben poco, ma semplicemente perché i fatti, le azioni rifiutano di essere immagazzinati nell’inquadratura, quindi stanno ai margini del linguaggio, nell’indistinzione delle parole e dei racconti, nel fumo che proviene dal fuoricampo della favola e invade lentamente il fondo dell’immagine. E Lav Diaz si limita a registrare, ora dopo ora, questa impossibilità di concretezza delle storie. Perché il cinema, in particolare, è il luogo molto strano in cui irrompono i fantasmi e scompaginano il reale, il piano dei rapporti tra l’oggettivo del mondo e il soggettivo della percezione. Di treni che attraversano il quadro e lo sfondano, ma solo a partire dall’illusione degli occhi che fanno contatto con la mente. Come si dichiara, in maniera esemplare, nella scena della “prima” proiezione pubblica. È il luogo in cui crolla l’utopia tecnologica della riproducibilità, in cui i colori non sono più gli stessi colori e le luci non hanno più nulla di vero. Tanto vale la pena eliminarli o teatralizzarli, denunciarne l’artificialità. Lo spazio del cinema, pur nella sua densità, non ha più nulla di naturale. È uno spazio in cui emergono, si confondono e si perdono le apparizioni. Mentre il tempo non vale più come l’orizzonte “storico” in cui si inseriscono gli eventi. Neppure come una percezione o un sentimento. Vale come l’attesa di un evento, che può emergere solo su un altro piano. Ed è, d’altro canto, come una foresta pluviale, qualcosa che fa decantare il mondo, che precipita sul fondo, si deposita nell’acqua, nel flusso infinito degli esseri e delle cose. E in superficie rimangono emozioni, concetti, idee, croci, simboli e simulacri. Tutto ciò che c’è di immateriale, come per un magico paradosso, viene alla luce, prende forma seppur tenue e si muove. E i personaggi non sono che contenitori temporanei, i vettori di una polifonia, di questo movimento fatto di incontri e scontri dolorosi. Mentre la vita sfuma, il mondo brucia e i miti si perdono, il cinema tenta di resistere. Con la forza di una ninna nanna.

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