#Berlinale2016 – Alex Gibney racconta la guerra informatica con Zero Days

La potenza dell’arma cibernetica continua a sorprenderci alla stregua di quanto ci cambiò la vita la corsa al nucleare dopo la Seconda Guerra Mondiale: la conferenza stampa con il documentarista

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E’ riuscito a mantenere il segreto sul contenuto esatto del suo ultimo documentario Alex Gibney, quantomeno fino alla premiere berlinese di oggi, quando la “bomba” di Zero Days è stata annunciata in prima pagina sul New York Times, dalla cui inchiesta tutto era partito: se il Governo decide che sia giusto tenere dei segreti, allora è il caso che facciamo in modo di averne qualcuno anche noi registi!, scherza il documentarista in conferenza stampa. L’ossessione per la segretezza sta rovinando la democrazia americana, dice.
Per il suo lavoro sulle silent weapons for quiet wars Gibney ha come al solito incrociato una serie mastodontica di rivelazioni e documenti difficilmente accessibili, e ha poi simboleggiato mettendo in scena come un’unica fonte quelle che in realtà sono molte voci diverse, che era importante mantenere segrete vista la politica aggressiva dell’amministrazione Obama sui leakers: i documenti di Snowden sono stati fondamentali per dare un senso e una direzione a molti aspetti del film, rivela Gibney, e non credo che lui e Assange siano dei criminali informatici, piuttosto trovo un assoluto valore nelle loro inchieste.

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Come altri lavori dell’autore, il film parte da una traccia investigativa, quella sul virus Stuxnet pianificato come arma di Stato, e pian piano approda ad un’altra, l’operazione Nitro Zeus pronta a colpire contro Teheran: quando abbiamo iniziato a lavorare al documentario non avevamo neanche lontanamente idea che ci sarebbe stato un accordo con l’Iran, ricorda Gibney.
Nessuno ha mai posto ancora l’attenzione su quanto sia formidabile l’arma cibernetica posseduta dagli States, o quelle possedute da Russia, Cina, Israele: non ce ne rendiamo conto ma è un aspetto vulnerabilissimo in una situazione così interconnessa com’è quella occidentale. Spero che quest’opera diventi un veicolo per spronare il popolo americano a chiedere di venire informati su questo tipo di operazioni, e a stimolare la discussione sulle armi informatiche che sono una minaccia reale e presente nelle nostre vite. Vi ricordate dei nordocoreani contro la Sony, o guardate quello che fanno i russi in Ucraina, sono esempi di un uso massiccio di queste tecnologie.

Gibney spiega infatti che il pericolo degli attacchi informatici utilizzati come arma di guerra è che questo tipo di malware può spargersi all’infinito, e potresti non sapere mai da che parte sia arrivato l’attacco, chi lo ha progettato: la distribuzione di Stuxnet su scala mondiale ha dato semaforo verde non solo a tutti gli Stati per armarsi di possibilità belliche come questa, ma anche a figure non governative potenzialmente interessate a costruire e indirizzare pesanti attacchi cibernetici.
Gibney spiega come l’ipotesi Nitro Zeus fosse solo una delle cautele prese da Obama in caso di accordo saltato con Teheran, o addirittura di attacco iraniano all’America o a stati alleati. Anche le altre due non prevedevano un “ingaggio” tradizionale degli USA in guerra, trattandosi del ricorso alle azioni fulminee delle forze speciali, e dell’impiego dei droni.
L’operato di Obama in questa storia, dice il regista, ci insegna quanto può essere potente la diplomazia quando è portata avanti giocando in maniera oculata su un campo pericoloso, con delle forze lavorano in maniera nascosta dietro al negoziato, e ti coprono le spalle.

Tutto questo rafforza l’urgente bisogno di un welfare informatico: la potenza dell’arma cibernetica continua a sorprenderci alla stregua di quanto ci cambiò la vita la corsa agli armamenti nucleari dopo la Seconda Guerra Mondiale.

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