#Berlinale2016 – Boris sans Béatrice, di Denis Côté

Un cinema, quello del regista canadese, che non ci ha quasi mai attratto ma qui al limite della codardia che cerca la rarefazione, poi torna indietro. e il grottesco rasenta il ridicolo. In concorso

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Le carcasse dell’umanità. Che non sono quelle delle automobili del suo Carcasses che aveva presentato alla Quinzaine a Cannes nel 2009. Ma sono proprio i residui di persone/personaggi, filmati con calcolata freddezza, intrappolati in inquadrature da dove non sembrano esserci vie d’uscita, che somigliano anche a quelli di Vic + Flo ont vu un ours, che Denis Côté aveva presentato proprio qui alla Berlinale, in concorso, nel 2013.

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In un posto da qualche parte, in Québec, Boris Malinovsky, sembra avere tutto dalla vita. Forte, arrogante e orgoglioso, fa di tutto per raggiungere i suoi obiettivi. Ma le sue certezze cambiano quando sua moglie Béatrice, Ministro del governo del Canada, è intrappolata a letto a causa di una depressione. L’uomo ha avuto anche una relazione extraconiugale con la collega Helga e si lascia trasportare nei confronti di Klara, la giovane domestica che lavora a casa sua. All’improvviso Boris ricev però anche le chiamate di uno sconosciuto che gli chiede di incontrarlo nel cuore della notte e lo costringe a cobfrontarsi con se stesso.

boris sans béatrice Cerca ancora il caos Denis Côté in un cinema che, almeno qui, non ci ha quasi mai attratto. Sembra quasi un Denys Arcand anni ’80 (alla Jesus of Montreal) riaggiornato, magari più raffinato ma anche più presuntuoso, ma dove la ricerca formale sembra così tanto studiata da rasentare l’inconsistenza. Giocato su diversi binari comunicativi, (la doppia lingua inglese/Francese, le interazioni tra Boris e gli altri corpi), Boris sans Béatrice potrebbe rappresentare quasi un film sulla morte, sul passaggio di mezzo tra la vita terrena e l’aldilà. Il confronto tra Boris e lo sconosciuto (Dio?) potrebbe mostrare il cinema come unico mezzo per far vedere scorci della vita passata, dove gli unici momenti vitali sono quelli del rapporto del protagonista con Helga, soprattutto nella scena in cui si trovano in un auto da corsa.

Ma l’improvvisa velocità è solo l’esempio temporaneo del piede che è partito sull’acceleratore. Per il resto il cineasta si affida a una composizione plastica, utilizza le maschere del museo per mostrare le molteplici vite che abitano una stessa esistenza. Ma Côté cerca la rarefazione poi torna indietro. Come se avesse paura. E quindi si spinge anche su territori da grottesco di dubbio gusto al limite del ridicolo (i due ragazzi che recitano Oreste ed Elettra che abitano con la figlia di Boris, protagonista di una scena con il padre che rovescia il melodramma e lo fa detestare) e con l’apparizione di Denis Lavant dove ne viene utilizzata l’icona che è però anche spogliata completamente di tutto il potenziale eversivo dell’attore. Le sue parole restano così in un cinema che ci pare ancora di sola apparenza.

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