#Berlinale2016 – Creepy, di Kiyoshi Kurosawa

Un nuovo incubo illuminato di nero che conferma ai massimi livelli il cinema del cineasta giapponese. A Berlinale Special

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La disposizione delle cose dice, come sempre in Kiyoshi Kurosawa, una dislocazione alternativa della realtà, come se il mondo appartenesse a un’ombra che attraversa obliquamente la coscienza dei personaggi, lasciando in disparte le coordinate reali dell’esistere. Il protagonista di Creepy (Berlinale Special) è una sorta di finestra aperta su un mondo che rivela lo spettro di se stesso, un portatore sano di un male oscuro che ridefinisce lo scenario attorno a lui. Ancora un detective con il marchio della colpa inciso dentro di sé, come in Charisma: il suo nome è Takakura e ha il volto da adolescente invecchiato precocemente che lascia presagire l’estraneazione cui è condannato. L’incipit illustra il segno della sua sofferenza futura, la solita presunzione di conoscenza che è la matrice dell’indagine, l’ipotesi di saper capire lo spirito di un demone (un giovane serial killer che colpirà ancora e sempre sotto i suoi occhi…), dal quale in realtà finirà suo malgrado posseduto. Il meraviglioso futuro che Takakura immaginava per sé finisce schiantato in un attimo e lo ritroviamo, sei anni dopo, non più detective ma docente di criminologia, invischiato per curiosità scientifica nel caso irrisolto di una intera famiglia scomparsa nel nulla. Kurosawa finge di ridefinire per lui un ruolo, ma ovviamente lo spinge in un gioco dove la detection sembra quasi surreale, materializzazione di un destino oscuro che si incarna nel parallelo con la sua vita privata: la moglie, la nuova casa in un quartiere di periferia, un vicino di nome Nishino (è Teruyuki Kagawa, il padre di Tokyo Sonata) in bilico su una normalità inquietante, forse solo un sociopatico o forse piuttosto un pericoloso psicopatico, che tiene in ostaggio una famiglia…

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creepy kiyoshi kurosawaIl piano inclinato della realtà si traduce in un processo di deformazione dell’universo intimo delle figure in scena: ancora una volta Kiyoshi Kurosawa descrive un perimetro destinato a subire una metamorfosi incoscia e subitanea, con una torsione narrativa che mette alla prova i puristi della consecutio dello script, di cui in verità c’è poco da preoccuparsi. La prima parte del film sembra quasi un omaggio a Dario Argento, per quella disinvoltura ai limiti dell’assurdo con cui tratteggia i personaggi, per le soluzioni narrative ardite, per la puntigliosità con cui studia gli ambienti, i dettagli, le topografie per poi infischiarsene… Poi è tutto un gioco di introflessione purulenta della realtà: Takakura e sua moglie finiscono nel vortice di una ossessione che si rispecchia nella inquietante figura del vicino di casa, demone autoindotto che deforma il senso della realtà, manipolando la volontà stessa delle sue vittime, piegandole alla sua pacifica violenza. Siamo sempre nell’universo distorto di Kurosawa, gli elementi si sfaldano di fronte alla inquietante verità fantasmatica che si portano dentro, il mondo stesso diventa la proiezione perturbante di un’immagine deformata del male. Riecheggiano frammenti del suo cinema: le meduse nel documentario che passa sul televisore in casa di Nishino, l’aereo – questa volta non in fiamme… – che solca il cielo come in incongruo presagio, l’antro del male che si apre come uno spazio oscuro parallelo in cui il senso stesso della vita si converte nel suo opposto… Mentre l’orrore trova la sua soluzione, ovviamente solo apparente, in un mondo ormai devitalizzato, consegnato a figure prone nella loro libertà come zombie che vagano nel nulla. L’urlo agghiacciante della moglie che abbraccia il detective è il sigillo straziante di questo nuovo incubo illuminato di nero che conferma ai massimi livelli il cinema di Kiyoshi Kurosawa.

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