#Berlinale2016 – Hedi, di Mohamed Ben Attia

Mohamed Ben Attia la parabola di Hedi, senza forzare in alcun modo la mano. Sta sul protagonista con un’attenzione dardenniana. Perché il dramma non è quasi mai qualcosa di eccezionale. In concorso

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Nelle stanze più fredde scoppia un caldo sorriso
Il giovane e silenzioso Hedi ha la vita già scritta. La madre ne traccia le parabole. Un lavoro come agente commerciale della Peugeot (“venditore porta a porta, praticamente”), un matrimonio già organizzato. Nessun sussulto, nessuno scatto. L’unico “sogno” è il disegno, un album di comics da lasciare chissà a chi. Ma la vita non lascia scampo ai programmi. Per quanto l’ordine tenti di imporsi.
Sì certo, è una questione culturale. Ed Hedi è incatenato mani e piedi a un sistema in cui la tradizione detta legge e la forza dei legami toglie spazio alla libertà. È un sistema sbagliato? Chissà, non in assoluto, ma probabilmente non è questo il punto. I doveri e le responsabilità sociali cambiano per forza di cose a seconda dei contesti. Sono relativi. E perciò non si tratta tanto di affermare un principio di autodeterminazione, la possibilità di scegliere i propri percorsi e intraprenderli in totale autonomia, anche contro tali doveri. Si tratta semmai di registrare il punto di rottura, il momento in cui emerge un sentimento inatteso, che si aggrappa a un’indistinta sensazione di disagio e spinge su una spina nel cuore. E da lì si apre la ferita, prende forma la crisi e tutto crolla. È qualcosa che capita. E dunque non è un principio astratto. E non è neanche una libertà. È semmai una necessità incontrata a un certo punto del cammino: ci si sente estranei, “fuori di sé” e si deve recuperare. Ma che accade a questo punto? La cosa più terribile. La sensazione di aver abbandonato casa, il posto più sicuro, e di essersi avventurati in una terra straniera, sconosciuta. Non si riconosce più nulla di certo. E si avverte il peso di aver tradito un’attesa. Ed ecco, allora, il dubbio, la paura, l’impulso di tornare indietro. Cuore e testa si confondono. Fino al momento delle decisioni inevitabili.

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Mohamed Ben Attia è bravo nel raccontare la parabola di Hedi, senza forzare in alcun modo la mano. Sta semplicemente sul protagonista, Majd Mastoura, con un’attenzione dardenniana (e i fratelli figurano qui tra i produttori). Perché il dramma non è quasi mai qualcosa di eccezionale, di gridato, non è un fuoco che impazzisce e divampa. Esplode silenzioso nella piattezza del quotidiano. Basta un gesto inconsulto, uno sfogo di rabbia, una parola di troppo, una lacrima non trattenuta per aprire voragini nell’anima. Fa parte del movimento stesso della vita. E dopo è tutto un ricucire, un patteggiare, un tentativo di riequilibrare gli assetti. Sebbene gli argini si siano rotti. Già, non c’è niente di straordinario nel film di Ben Attia. Eppure fa male e soccorre allo stesso tempo.

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