#Berlinale2016 – Il muro

Un livello del concorso davvero scadente, forse il peggiore da quando è seguito da Sentieri Selvaggi. Immaginate la reazione a Cannes e Venezia con un cartellone della competizione di questa qualità

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Non è tornato il muro a dividere Berlino Est da Berlino Ovest. Ma mai come quest’anno questa edizione della Berlinale si è mostrata impenetrabile, chiusa su se stessa, legata a un’idea e a una visione di cinema che appaiono ormai estremamente vecchi. Se il futuro dei festival di cinema deve partire dai segnali di questa 66a Berlinale, non c’è molto da essere ottimisti. L’unico azzardo può essere rappresentato dalla proiezione di oltre 8 ore del film di Lav Diaz, A Lullaby to the Sorrowful Mystery, che personalmente non ho visto ma che, come potrete vedere dalle pagelle, ha avuto la media del 9 dai critici che sono stati in sala dall’inizio alla fine della maratona.

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a lullaby to the sorrowful mysteryPer il resto solo due film hanno sostanzialmente separato me e Aldo Spiniello. Si tratta dell’Orso d’oro Fuocoammare di Gianfranco Rosi (unico italiano, dopo Michelangelo Antonioni, ad aver vinto consecutivamente Venezia e Berlino e che riporta il più importante riconoscimento del Festival nel nostro paese quattro anni dopo Cesare deve morire), forse un premio anche sostanzialmente meritato ma che appare come il risultato di un livello clamorosamente basso della competizione. Le perplessità maggiori riguardano il modo in cui vengono filmati gli immigrati recuperati in mare in cui si sente addosso la luce, quasi una ricerca di un’immagine curata che contrasta con un’immagine necessaria. Del resto Gianfranco Rosi è un cineasta che ha spaccato e continua a dividere la redazione di Sentieri Selvaggi. L’altro titolo è Zero Days di Alex Gibney, documentario sulla guerra informatica che coinvolge stati, servizi segreti, agenzie governative, apparati militari, aziende leader nello sviluppo tecnologico e industriale che è risultato piuttosto verboso.

sandrine kiberlain in quand on a 17 ansA lasciare interdetti, quasi stupiti, è la povertà del Concorso. Dove ha lasciato parzialmente il segno in modo netto solo Quand on a 17 ans di André Téchiné, mentre si sottolineano i passi falsi di Mia Hansen-Løve per L’avenir, una cineasta di talento ma portavoce di un cinema ormai troppo con la puzza sotto il naso che declama la simbiosi vita vissuta-letteratura come se la Nouvelle Vague non fosse mai finita. Oppure anche l’Orso d’argento di Danis Tanović per Death in Sarajevo (il secondo consecutivo dopo quello del 2013  An Episode in the Life of a Iron Picke) con una macchina a mano che ridisegna le coordinate della Storia dentro un hotel ma che appare più il risultato di un compiaciuto stile che di una necessità. E poi ci sono anche quei cinema ingannatori e manipolatori (The Commune di Thomas Vinterberg, dove la protagonista Tryne Dyrholm è stata premiata come miglior attrice), già stantii nella loro teatralità (l’accoppiata Colin Firth-Jude Law in Genius), imitazioni di True Detective dall’Iran (A Dragon Arrives!) o la maniacale freddezza del canadese Denis Côté che in Boris sans Béatrice alza già quel muro tra il cinema e lo sguardo, mai quest’anno così separati. Per ritrovare qualche apertura bisogna passare dal fuori concorso, tra Spike Lee (Chi-raq) e Delépine-Kevern (Saint amour). Ma sono soltanto fuochi fatui.

Se Cannes o Venezia avessero avuto un Concorso del genere, sarebbero crollati sia la Croisette che il Lido dagli attacchi della stampa. Qui invece tutto impermeabile. Di un festival legatissimo alla città, con sale spesso piene, che quest’anno ha fatto il record di biglietti venduti (337.000), che si presenta come una macchina perfetta che riesce a nascondere anche i vistosi ritardi dell’inizio delle conferenze stampa (i circa 20 minuti per Maggie’s Plan). Ma il cinema sta da un’altra parte. Forse perché la Berlinale è troppo dipendente dalla presentazione di Prime mondiali. Fatto sta che la povertà di questa edizione potrebbe agevolare il cartellone di altri grandi festival, a cominciare da Cannes. Se lo scorso anno era stata una delle edizioni migliori (Panahi, Larraín, German jr.), quella di quest’anno è stata, probabilmente, la più deludente da quando è seguita da Sentieri Selvaggi. Da dimenticare il prima possibile.

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