#Berlinale2017 – Bye Bye Germany, di Sam Garbarski

Seconda collaborazione del regista con Moritzs Bleibtreu nel film tratto dalla trilogia di Michael Bergmann che segna troppo scopertamente tutti i movimenti sulla scena. In Berlinale Special

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Una trilogia letteraria alla base, Teilacher di Michael Bergmann. E un umorismo nero che sembra provenire dalla commedia statunitense anni ’40 e da una cultura mitteleuropea che rilegge una pagina del post-nazismo, quella di alcuni cittadini ebrei sopravvissuti all’Olocausto che si trovano ancora nel paese che li ha perseguitati.

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C’è ancora la memoria (Quartier Lointain) e soprattutto la necessità di trovarsi in una situazione-limite per reinventare la propria esistenza – che caratterizzava Irina Palm, il film più famoso di Sam Garbarski – in Bye Bye Germany. Un titolo che già racconta il film, ambientato a Francoforte nel 1946. David Berman e altri sei amici, che sono riusciti a rimanere vivi dopo la tragica esperienza nei campi di concentramento, decidono che vogliono lasciare la Germania per andare in America. Cercano così di reciperare il denaro necessario. L’uomo è poi inseguito da alcuni sospetti sul proprio passato. L’agente speciale Sara Simon sta infatti investigando su di lui. Perché ha due passaporti? E perché soprattutto stava visitando Adolf Hitler a Obersalzberg?

bye bye germany Antje Traue Moritz BleibtreuIl cinema di Garbarski continua ad esibire i segni della messinscena. Lavorando principalmente sul corpo dell’attore, segnando i suoi movimenti nello spazio, facendone e marcandone le tracce per esibirle allo spettatore. E dopo Vijay – Il mio amico indiano, la figura ideale per questo meccanismo scenico è ancora Moritz Bleibtreu. Lì era creduto morto dalla sua famiglia e decide di stare al gioco per scoprire cosa pensano veramente di lu. In Bye Bye Germany lavora invece sull’ambiguità del doppio, sul contrasto verità/finzione nel mettere a fuoco un passato tragico o da doppiogiochista. Il lavoro è anche raffinato ma la mano però è pesante. Il suo cinema non si libera dell’origine letteraria, anzi la amplifica. Si vede mnella sovrabbondanza dei dialoghii ma soprattutto nel flashback lunghissimno durante l’interrogatorio. Gabarski cerca soltanto l’inquadratura e la luce giusta (la scena sotto la pioggia), rasenta i territori della commedia nera che però ha pochi momenti di follia come nella scena in cui David sfonda la macchina rossa. Il meccanismo teatrale è troppo esibito per non essere smascherato subito. Nulla di male per un film che doveva avere un’altro respiro. Che però comprime i tempi, cercando quel garbo e quella sottigliezza della commedia sofisticata che resta però solo nella cornice.

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