#Berlinale2017 – Final Portrait, di Stanley Tucci

Tucci interviene di alleggerimenti, tentativi brillanti e aperture di defaticamento per lo spettatore che assiste a questi 18 giorni di sfida tra Giacometti e il suo modello d’eccezione. In Concorso

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Basta portare l’attenzione per qualche attimo alla colonna sonora per sezione d’archi di Evan Lurie per capire che la Parigi fuori dallo studio di Alberto Giacometti, nel film di Tucci, e’ una cornice di familiarita’ astratta che non ha alcun interesse ad andare oltre alla riconoscibilita’ del cliche, come appunto alcuni passaggi “francesizzanti” dello spartito, piuttosto interessante, di Lurie: per il resto del tempo, sia il suono della musica di accompagnamento, sia il mood dell’intera messinscena nel ventre creativo dell’artista parlano chiaramente la lingua nervosa e spezzettata dell’off-Broadway, della performance contemporanea – per restare ad un titolo musicato da Lurie, piu’ che ad un Woody Allen parigino, a cui forse vuole guardare, questo Final Portrait finisce ad assomigliare a quell’Interview diretto da un altro attore irrequieto come Steve Buscemi.
Oltre alla struttura da camera portata all’esasperazione dei nervi dei due giocatori protagonisti della partita di pazienza e lavoro ai fianchi, i due film spartiscono una ricerca ossessiva, forse anche forzata, di un senso di inquietudine, dato dalla claustrofobia unita alla resa schizofrenica del personaggio bigger than life che la storia racconta: e qui Geoffrey Rush restituisce uno Giacometti di una modernita’ metropolitana forse lontana dalla verosimiglianza storica quanto aderente all’abituale lavoro di interiorizzazione clinica che l’interprete dona alle sue interpretazioni.

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final portrait Clémence Poésy Geoffrey RushTucci a quel punto interviene soprattutto di alleggerimenti, tentativi in direzione “brillante” e aperture di defaticamento per lo spettatore: peccato che finisca cosi per mantenere l’indagine sull’anima nascosta del tormentato e infantile Giacometti ad un livello di superficialita’ spesso frustrante (soprattutto in alcune “riflessioni” sull’arte nei dialoghi, poco piu’ che constatazioni distratte), a cui pare voler rimediare poi con istanti di pathos affidati a ralenti della disperazione dello scultore tra adulterii alla luce del giorno e pedinamenti dinoccolati nella notte alcolica e alla deriva.
Se Final Portrait finisce comunque per essere qualcosa di piu’ del racconto di una eccentricita’ – i 18 giorni passati dallo scrittore James Lord a posare per un suo ritratto, dipinto da Giacometti, che all’inizio avrebbe dovuto impiegare poche ore, poi raccontati nel libro Un ritratto di Giacometti, alla base della sceneggiatura – e’ probabilmente merito delle sorprendenti figure di contorno, dalla moglie dell’artista fino alla prostituta che ne fu musa e amante, al fratello e assistente Diego (uno straordinario Tony Shalhoub), al principale contendente della prova di Rush, ovvero Armie Hammer nel ruolo di James Lord: se in alcuni istanti sembra fraintendere la rigidita’ prevista dal ruolo, Hammer e’ in ogni caso il contrappunto preciso al disordine e al caos dell’esistenza di Giacometti, della quale il suo personaggio diventa testimone privilegiato per un paio di memorabili settimane.

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