#Berlinale68 – Ága, di Milko Lazarov

Suggestioni da Flaherty in un film dove c’è forse c’è un eccesso di controllo, un’eleganza formale. Ma il finale è di grande commozione. Fuori concorso

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Nelle sconfinate distese ghiacciate del nord della Siberia Orientale, gli jakuti combattono da sempre con la durezza della natura. Ed è così che continuano a vivere Nanook e Sedna, secondo gli antichi ritmi e le occupazioni tradizionali. Lui è un cacciatore di renne, lei si occupa della cucina, di confezionare le pellicce, di approntare tutto ciò che possa essere utile a rendere più agevole la vita in quelle terre remoto. A sera, moglie e marito si parlano e raccontano vecchie leggende, sogni, storie che mescolano sempre, in un modo o nell’altro, il fantastico con il reale, l’elemento magico con la concretezza della vita quotidiana. Ma in questa eterna ripetizione, a poco a poco si introducono i segni della modernità, anche una semplice radio portata dal figlio Chena, che vive in città e che attraversa i ghiacci in motoslitta. Una modernità che, in qualche modo, altera gli equilibri della famiglia, mettendone in crisi l’unità. Il grande rammarico di Nanook e Sedna è di aver “perso” la figlia Ága, che ha preferito andare a lavorare in un miniera di diamanti piuttosto che continuare con questa vita ai limiti del nulla. Ecco, Sedna, che sente di non stare bene, che le sue forze sono inesorabilmente in declino, vorrebbe rincontrare la figlia, mentre Nanook preferisce far finta di niente e ignorare la ferita dell’abbandono.

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Ága lazarovQuasi una storia alla Ozu sullo sfondo del gelo polare, quella che affronta Milko Lazarov, che dalla sua Bulgaria si avventura in altri mondi misteriosi. Epperò le suggestioni cinematografiche sembrano essere altre. A partire da Flaherty, ovviamente, richiamato in causa già dal nome del protagonista. Il documento etnografico che si sposa con la classica linearità delle storie. E così lo script non ha bisogno di “inventare” molto rispetto al racconto delle attività quotidiane: i buchi nel ghiaccio, la pesca, la cattura e l’uccisione di una volpe, la raschiatura della pelliccia, la cena quotidiana. Una tempesta di vento è già un elemento drammatico ulteriore che mette a dura prova la capanna, il tetto sotto cui Nanook e Sedna tengono al riparo l’unità del loro amore. È il primo segno, letterale, di una tempesta ancor più devastante.

Già il titolo, riferendosi alla figlia andata viva, parla di mancanza e desiderio, di rimpianti e perdite. Ecco, da un certo punto in poi la scrittura accentua il dramma, fino a un finale sull’orlo della voragine, di grande commozione. Forse c’è un eccesso di controllo, un’eleganza formale e una ridondanza di sottolineatura emotiva che stride con la semplicità della storia. E una rinuncia a far emergere sulla superficie stessa dell’immagine l’elemento magico profondo, tutto quel sottostrato mitico, quella storia segreta dei costumi, appena richiamati dal fantastico incipit con la donna che suona il suo strumento a bocca e che pare essere uscita da un sogno di Fedorchenko. Ma ciò che interessa a Lazarov è saldare i personaggi all’ambiente:  contare le rughe sui volti dei suoi protagonisti, misurare il ritmo dei loro gesti, e al tempo stesso ricercare con i campi lunghissimi il punto di congiunzione tra il biancore abbacinante dei ghiacci e il cielo azzurro solcato da nuvole, che piano piano si addensano e si fanno più oscure.

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