#Berlinale68 – Grass, di Hong Sang-soo

È il ritmo di un cinema sempre uguale, ma che sembra aver accettato la desolazione e l’impotenza. Hong Sang-soo ha annullato la differenza tra la prossimità e la distanza. In Forum

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Vorrà pur dire qualcosa che continua a non esserci traccia di una normale dialettica campo-controcampo. A parte questioni di “economia” registica… Per ogni dialogo Hong Sang-soo si muove nell’inquadratura isolando ora un personaggio ora l’altro e ogni suo spostamento sembra quasi rispondere a una logica matematica interna, che gioca tra l’equilibrio dei piani di insieme, le zoomate, i piani sulla figure, come un misteriosa regola aurea che segue la geometria dei ritmi musicali piuttosto che rispondere a esigenze narrative di sottolineatura drammatica. O magari è tutto lasciato al caso, all’improvvisazione del momento, un po’ come la scrittura che si sviluppa e procede giorno per giorno. A secondo di come prende vita il set.

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grass2Fatto sta che i dialoghi sono gran parte dei film di Hong San-soo e in quest’ultimo Grass, come non mai, sfociano nel conflitto più aperto, raccontano di rotture dolorose. A cominciare da quel primo incontro con lei che accusa lui di aver causato il suicidio della loro amica. Epperò tra una battuta e l’altra, tra un volto e l’altro, non c’è mai un taglio, una vera cesura. Come se fosse essenziale tenere “ancora insieme” le cose e le persone, continuare a ipotizzare la possibilità di un legame, di un’apprensione e di una comprensione, al di là dei litigi, gli abbandoni, al di là di quella solitudine che sembrerebbe essere la condanna definitiva, di tutti. Se ognuno di noi occupa ancora lo spazio e il tempo di una stessa, unica inquadratura, vuol dire che c’è ancora la possibilità di un contatto reale, di recuperare una posizione più prossima verso l’altro, a prescindere dalle invenzioni e dalle manipolazioni infinite del montaggio. “Le persone, Aldo, le persone…”. Le persone coesistono e i loro percorsi si intrecciano, nonostante magari non portino da nessuna parte, si ripieghino nell’indifferente circolo delle ripetizioni, dei ritorni, nei giri a vuoto. Del resto le storie sono diverse, ma si somigliano, si attorcigliano, si dipanano e si intrecciano ma seguono le fibrillazioni di sentimenti universali. Ecco, passiamo tutti per lo stesso bar, possiamo cambiare tavolo e sedia, ma siamo lì. Osservati e tollerati da un barista invisibile, unico testimone possibile/impossibile di un film che pure gioca sulle istanze narranti e i punti di osservazione, disegnando false traiettorie, spiazzando di continuo… Hong Sang-soo sembra delegare la sua visione ad Areum, quasi fosse l’autrice chiamata a reggere le fila delle storie e dei discorsi. O quanto meno l’osservatrice di riferimento. Ma sarebbe un gioco troppo “distante”: lo stesso personaggio di Kim Minhee (che più volte dice di non essere una scrittrice) viene risucchiato nel flusso delle relazioni, conserva la sua sensibilità ma smarrisce la lucidità per capire le situazioni. Quando a sera torna nel bar, accetta di unirsi al tavolo degli altri, degli “attori”, mentre la macchina da presa esce fuori e cambia prospettiva. È qui che lo sguardo di Hong Sang-soo riesce, finalmente, ad abbracciare magicamente tutto e tutti, facendo rientrare quelli che erano “usciti” dalla storia, raccogliendo i segni seminati lungo il cammino, le epifanie appena accennate. I soliti doppi, le cose che ritornano, gli incontri casuali che sono possibili e percepibili proprio perché accadono a ripetizione, perché i volti si ritrovano e si riconoscono…

grass3È il ritmo di un cinema sempre uguale, lo sappiamo. Ma che sembra aver accettato la desolazione dello smarrimento e l’impotenza a venir fuori dall’impasse dell’esistenza. E perciò non ha più bisogno di rimarcare né la ripetizione né la variazione. Ogni cosa si ritrova allo stesso punto, al termine del cerchio, o in un punto leggermente più lontano, all’ennesima curvatura della spirale. Ma si ritrova, comunque. Hong Sang-soo ha annullato la differenza tra la prossimità e la distanza. Le strutture narrative si sciolgono nel respiro delle sinfonie classiche, mentre tutti i dettagli, con le loro proprie puntuazioni di forza, sfumano nell’equilibrio dell’insieme, come colori di un quadro. Ed è come se la sensibilità di Truffaut avesse finalmente incontrato la sublime consapevolezza di Ozu. Il provvisorio non è diventato definitivo. La vita è ancora rugiada. Eppure, eppure… A sera tutto si placa. Sembra esserci una speranza nuova, tra le nuvole di fumo delle sigarette. Anche ogni goccia di rugiada dà da bere ai fili d’erba.

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