#Berlinale68 – Human, Space, Time and Human, di Kim Ki-duk

La radice filosofica hobbesiana, l’homo hominis lupus, è spinta dal regista coreano al degrado massimo, in maniera auspicabile e volutamente dimentica della strada riabilitativa. Panorama

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Nel mondo di Kim Ki-duk corre tanta sfiducia verso l’uomo ed il monito demolitorio trova conferma nel mare magnum delle individualità rese ciniche, arroganti, opportuniste ovunque gliene venga fornita occasione. Lo sforzo del regista di riemergere da uno stato personale di profonda depressione regala sprazzi di notevole lucidità anche se complessivamente appare ancora influenzato da un evidente rancore, infettando a cascata quella poetica che lo rese celebre. La cosa diventa certo complicata dal tentativo di narrare più vicende contemporaneamente, una coralità lontana dal discorso minimale legato ad un piccolo contesto umano reso di respiro universale che erano il marchio di tanti suoi film. Pensiamo ad esempio a Primavera, Estate, Autunno, Inverno..e ancora Primavera, o anche L’IsolaL’arcoLa Samaritana (Orso d’Argento a Berlino nel 2004) tutti perfetti nel sublimare l’ego scomposto nel dolore convogliandolo ad una redenzione, cosa che in Human, Space, Time and Human riesce molto meno e non è solo in conseguenza di uno sguardo pessimistico.

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Presentato nella sezione Panorama della Berlinale, è la storia di una crociera su una vecchia nave da guerra che dopo una prima notte di viaggio tumultuosa tra stupri, omicidi ed ogni genere di nefandezze, il mattino dopo invece che sull’acqua è sospesa a navigare nel cielo, con le scorte alimentari in esaurimento. La nave circuita dallo spazio tempo è simile ad un’Arca di Noè riempita, a partire dall’equipaggio fino all’ultimo dei passeggeri, rappresentativi di delineati clichè, degli emuli spuntati di predecessori incisivi nella loro essenzialità. Come nella Nave dei Folli di Bosch, quasi fosse un riadattamento animato del dipinto medievale, le persone si lasciano andare ad una sequela di vizi e corruzioni in un’escalation intesa a scardinare i fragili argini etici, già in netta minoranza, travolgendo anzi per primi proprio coloro che ne sono l’incarnazione ideale.

Il presagire di una catastrofe imminente racchiuso nella prima parte del film, l’odore del disastro, resta quello facilmente associabile all’autore ed anche convincente. I problemi evidenti nascono invece nella progressione verso il thriller apocalittico, dove il lirismo si annulla per lasciare il campo ad un action movie risibile, mentre il substrato magico ne risente restando confinato in un angolo in osservazione inerte. 

coverlg__1519312166_93.61.149.153Anche la soluzione adottata di moltiplicare a dismisura i personaggi tematici, operazione in linea con gli assunti delle moderne serie televisive, invece di regalargli ampiezza, soffoca in una ridondante ripetizione. L’affresco allegorico fatica a mantenere alto il ritmo tensione-emozione come richiesto dallo sviluppo della storia ed anche il chiarissimo messaggio ideologico della quale si fa portatrice può fare poco per rimediare.

La radice filosofica di matrice hobbesiana, l’homo hominis lupus, è spinta fino al degrado massimo, descritta in maniera auspicabile e volutamente dimentica della strada riabilitativa, da accettare fino in fondo per ripartire da zero. Questo nuovo Paradiso Terrestre, e qui riaffiora un altro concetto biblico, può essere costruito solo dalle macerie e dalla polvere cui è ridotto, da una condizione d’inerte neutralità in un attendere interrotto da un lavorio paziente e preventivo. Anche se poi in realtà prevale un atteggiamento che sposa la tesi dell’impossibilità dall’affrancarsi dal peccato originale e del suo carattere inestirpabile. Altrettanto importante nell’insieme risultano essere il tema ecologico della sostenibilità ambientale del pianeta, il richiamo alle guerre che saranno la conseguenza della corsa ad accaparrarsi le risorse rimaste in via di esaurimento e l’importanza di diffondere uno stile di vita démodé, faticoso, sporco, in disparte per avere un’alternativa di vita valida quando saremo finiti nel baratro ed il pianeta sarà allo stremo.

Tra tanti fili conduttori il denominatore comune è una visione inquinata e filtrata dalla malattia del regista, una forte depressione, che ne compromette un lucido sviluppo, e seppure s’intravedano timidi segnali di ripresa soffoca nella qualunquistica condanna morale le singolarità, colorandole di cinismo, mancando comunque lo scopo di essere un collante adeguato a permetterne una distensione armonica.

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