#Berlinale68 – Museo, di Alonso Ruizpalacios

Il film del regista messicano di Gueros, con protagonista Gael García Bernal, stabilisce subito la sua condizione: questa è una replica della storia originale. In Concorso

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“Un guerriero Tolteca si considera già morto e quindi non ha nulla da perdere”. (Carlos Castaneda)

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Provare a scrivere e raggiungere il senso dietro Museo, del messicano Alonso Ruizpalacios è come visitare un gran museo antropologico. Non si sa bene dove iniziare il percorso e nemmeno quando finirlo, sempre con la consapevolezza che anche dopo aver girato per ore ed esseri persi nei corridoi fino all’infinito, non si riuscirà mai a vedere tutto ciò che c’è in esibizione. Poi, così come il cinema, un museo è anche uno spazio che forma parte del passato ma che vuole rendersi presente, fatto di corpi inerti che cercano di tornare alla vita, una dimensione che si sostiene soltanto su un riflesso, perciò comporta un atto di fede. Ma davvero siamo davanti alla traccia di una storia già accaduta, oppure si tratta di un’altra illusione, del trucco definitivo? E più che altro, come riuscire a capire la differenza?

Senza dosare il suo contenuto né lasciare spazio alla scoperta, il film di Ruizpalacios svela subito il mistero: Questa è una replica della storia originale. Sottolineando la sua relatività, che è anche la sua quintessenza, paradossalmente si rende più autentico. Aiutandosi con un incipit vertiginoso e brillante, continua a mettere in gioco se stesso, prendendo come spunto un collage d’immagini e riflessioni che richiamano i libri Maya fino alla letteratura new age del peruviano Carlos Castaneda, tornando sempre in modo ciclico alle stesse domande, e lasciando come vera traccia un’inquietudine sospesa: se l’unica cosa che abbiamo è la testimonianza di esseri già morti, come facciamo a fidarci della Storia?

Poi, ci sono i fatti. Museo è la “replica” della rapina al Museo Nazionale di Antropologia

cinepolis-picks-up-museodi Città del Messico veramente accaduta nel 1985, quando furono rubati alcuni dei capolavori più preziosi dalla collezione d’arte Maya. Nel film sono due trentenni dalla periferia di Città di Messico, Juan Nuñez (Gael García Bernal) e Benjamin Wilson (Leonardo Ortizgris), a effettuare il monumentale furto, spinti dalla inerzia, il senso di vuoto, la noia di un quotidiano senza nessuna variazione. Eppure, nel caso di Juan, la segreta illusione di diventare parte della storia, della posterità, e non finire per scomparire del tutto agli occhi di suo padre (Alfredo Castro), dei suoi antenati Maya, di se stesso. L’atto di sfidare il passato e prenderlo con le mani, facendo conto della sua corporeità ma allo stesso tempo mettendo in evidenza la sua condizione effimera, sembra dare un ultimo senso a una esistenza che ormai lui considera quasi morta. Juan si sente parte di un qualcosa già finito, di una storia scaduta, di una dimensione che è una replica del presente, dove non c’è spazio né tempo; soltanto la consapevolezza di saper che un giorno, prima o poi, finiremo per esistere solo come parte di un racconto lontano.

Essendo lui il corpo del film, García Bernal – che oggi è la vera e unica star del star system messicano, e forse di tutta l’America Latina-  attraverso Juan diventa anche una replica di se stesso, giocando con i confini tra la sua finzione e la sua realtà. Mentre il suo personaggio si scontra con tutto ciò che lo circonda, viene preso in giro e chiamato chaparro (piccoletto) – “sei troppo piccolo per essere un guerriero e un eroe”, gli dicono in continuazione – García Bernal si stupisce, si perde, guarda in macchina, esce dallo schermo per poi ritornare alla sua dimensione, forse rendendosi conto di essere anche lui un pezzo di museo, un corpo in esibizione. Lui è parte anche di un film che è una replica del passato, del 1985, fatto di finti pezzi d’archivio, di racconti d’allora, di una realtà che non gli appartiene ma da cui, almeno per adesso, è costretto a rendere sua.

Dopo la rapina, inizia un altro viaggio, dove i palcoscenici si succedono dalla giungla messicana alle rovine maya alle spiagge e le scogliere di Acapulco, e diventa una specie di road movie – con Riders in the storm di The Doors che torna in continuazione – che richiama il film Y tu mamá también di Alfonso Cuarón, dove lo stesso Gael faceva un viaggio di scoperta attraverso il Messico con il suo migliore amico. Da li in poi, il Museo si rende più una performance, un film artefatto che spinge oltre il gioco di concordanza tra suono e corporeità, tra rumore e silenzio, tra illusione e realtà, e si allontana del senso di replica per rendersi troppo pieno di sé.

Ma perdersi, prendere un detour, non vuol dire far sparire la strada percorsa, e anche se Museo può deviare dalla sua forza iniziale, in un modo o nell’altro sempre trova il modo di tornare a casa. Di ritrovare il luogo a cui appartiene, la vetrina dove c’è il suo vero riflesso, la galleria definitiva.

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