#Berlinale68 – My Brother’s Name Is Robert and He Is an Idiot, di Philip Gröning

Esercizi di innocenza e violenza. Grandi vuoti al posto di grandi silenzi. Quasi un Dumont versione tedesca infarcito di Heidegger e Brentano. Alla fine, solo tanta confusione. In concorso

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Il vuoto, l’attesa prima della violenza. Proprio come nel suo film precedente, La moglie del poliziotto, realizzato cinque anni fa.

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Il cineasta tedesco seziona ancora che gli spazi che filma. Si sofferma su dettagli (la formica su braccio, monete, bottiglie di birra). Amplifica il contrasto sonoro per evidenziare il contrasto tra il paesaggio e la natura umana.

Estate. Robert ed Elena sono due gemelli. A volte il loro rapporto è complice e tenero. Altre volte è violento. Lui la sta aiutando a preparare l’esame di filosofia. Vicino a loro, c’è una stazione di servizio dove vanno spesso a rifornirsi. Decidono di fare una scommessa. Elena dormirà con qualcuno prima di laurearsi. Se perde, Robert ottiene la VW Golf. Se vince, lui deve chiederle qualcosa. E non può essere un oggetto. Hanno 48 ore di tempo. E man mano che avanza il gioco diventa più serio.

mein bruder heisst robert und ist ein idiotInizio con voce-off, tante suggestioni e anche molta confusione. Gröning passa dalle forme di un cinema sulla perdita dell’innocenza a quelle di un documentario sulla natura. Infarcito di frasi esistenziali e citazioni filosofiche che vanno da Brentano ad Heidegger. Da quest’ultimo prende tutta la riflessione su essere e tempo che sembra attraversare spesso il suo cinema e caratterizzare particolarmente questo film. Ma fa parecchio fatica a mettersi in moto. Con una lunghezza spropositata (174 minuti) per un film che poteva tenersi nelle due ore, che guarda da una parte a Bruno Dumont. Da cui questo film sembra riciclare tutto il dissidio tra ricerca dell’armonia e una violenza improvvisa. Che va a scatti, si compiace di quello che filma come nella scena della finta rapina. Perché corpo e mente sono completamente scisse. C’è il fato contro la coincidenza. E ‘niente è più veloce della luce, neanche il tempo”. Ma per non farsi mancare nulla, c’è anche Malick. Una specia di La rabbia giovane. E la follia è tutta una creazione mentale. Quasi un’eleborazione filosofica. Forse anche Haneke è passato di qui. Con la velocità con cui le auto attraversano la tazione di servizio e Robert che spara. C’è uno spazio ristretto. Ma il paesaggio respira solo nei passaggi tra il giorno e la notte. Poi è quasi più impermeabile del monastero, la Grande Chartreuse di Il grande silenzio. Prima della ricerca della complicità. Lacrime agli occhi e sguardo in macchina. Ma da che parte sta quello di Gröning? E questo ‘cinema disturbante’ costruito così a tavolino perché continua a non appartenerci?

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