#Berlinale68 – Unsane, di Steven Soderbergh

Con un iPhone, Soderberg trova il punto di coincidenza tra la professionalità e l’amatorialità. E racconta delle gabbie dell’immagine e della necessità dell’opacità. In concorso

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Forse uno dei momenti cardine di Unsane sta nella trovata più ammiccante e ironicamente sgangherata del film: quei pochissimi minuti da boutade in cui appare Matt Damon nei panni di un poliziotto esperto di casi di stalking che, dopo aver perlustrato la casa della protagonista Sawyer, le spiega come (non) approcciarsi al web e ai social. Niente facebook, niente instagram, uso consapevole e cauto delle delle mail ecc… Perché è lì ormai la porta d’accesso da cui arriva l’uomo nero, da quel colabrodo di segni di “visibilità”, di informazioni, tracce. Eppure Sawyer, pur avendo cambiato città, lavoro, vita, non sembra potere fare a meno di tutte le mille applicazioni che ormai sono diventate il tessuto reale della nostra vita quotidiana, tanto quanto il mangiare e il bere, se non di più. Del resto, la ragazza gestisce anche le sue relazioni sessuali occasionali su un sito di incontri. Figuriamoci se può rinunciare a videochiamare la madre o a fare una ricerca web sulle strutture di sostegno per le vittime di stalking. Ed ecco che proprio lì arriva David Strine, il suo incubo peggiore, col volto da inquietante pacioccone di Joshua Leonard, che riuscirà a farla rinchiudere in una struttura psichiatrica per sette giorni di “osservazione”. Nel momento in cui non ti nascondi più sei fottuto. Ancora una volta il controllo passa attraverso la visibilità.

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unsane1L’immagine è una prigione. E chissà che in qualche modo Soderbergh non voglia provare a liberarla nella definizione mai troppo piena e nelle evoluzioni fluide e a tratti traballanti dell’iPhone con cui è girato Unsane, al di là della sua perenne ossessione di filmare alla velocità della luce: strumento leggero, nessuna resistenza, nessun confine, neanche l’oscurità di un bagagliaio scandagliato dalla visione notturna. Anche se poi la confezione di un prodotto che sia “consumabile” richiede l’intervento di altri mezzi, di droni e quant’altro. Ma, comunque, al di là di tutto, vengono in mente mille connessioni (il termine è quello già…) tra Unsane e il film tutto desktop e connessioni di Timur Bekmambetov, Profile, che proprio nel momento in cui si affida alle nuove possibilità, alle immagini riprese con gli strumenti “non convenzionali” delle webcam, delle videochiamte su skype e facetime, segue anche le derive inquietanti di questa sovraesposizione. La nostra prima pelle, la pellicola, quella che si può immediatamente toccare, montare, violare, ferire, è diventata digitale. Ma il collegamento più interessante è con un altro piccolo film che passa qui alla Berlinale, The Rare Event di Ben Rivers e Ben Russell, resoconto “sperimentale” dell’incontro-convegno sul concetto di Resistenza individuato da Jean-François Lyotard, a partire dal suo lavoro non realizzato “Les Immateriaux”. Una schiera di filosofi e intellettuali, capitanati da Jean Luc-Nancy, che parlano di magia, eventi, relazioni, interruzioni. A un certo punto lo scrittore maliano Manthia Diawara chiarisce il concetto di opacità nel pensiero di Édouard Glissant, che si contrappone politicamente ed eticamente al mito della “trasparenza” in cui è immersa la cultura occidentale. L’opacità è la caratteristica propria dell’essere umano, che costituisce l’identità del singolo e permette di riconoscere la specificità dell’Altro, che fonda il rapporto con l’Altro e, quindi, la possibilità stessa del confronto, dell’interazione, della comunicazione. Non siamo molto lontani da George Steiner che intuiva la “salvezza” di Babele, contro l’idea tramandata della condanna nella dispersione delle lingue.

unsane2La resistenza richiede la capacità di essere opachi, di nascondersi, di essere, in qualche modo, glissanti (perdonate il mio stupido gioco di parole). Ecco, non è un caso che le sequenze decisive di Unsane si svolgano nella camera di isolamento in cui è stata rinchiusa Sawyer, senza aperture e completamente tappezzata da pannelli blu imbottiti, che insonorizzano e “neutralizzano” ogni altra cromìa e ogni possibilità di riflesso, di immagine altra. Proprio in quella stanza opaca, per di più senza neanche il supporto del circuito chiuso, avviene il primo vero confronto tra Sawyer e David e si stabilisce l’esatta gerarchia del loro rapporto, con la donna che finalmente riprende il controllo del gioco. Ed è, comunque, un altro gioco di finzioni e rappresentazioni, seppur apparentemente svincolate dai filtri del contesto e della percezione sociale.

Una grande parabola di ribellione all’harrasment istituzionalizzato, dirà qualcuno. Ma è solo una traccia. In realtà, non riesco a togliermi dalla testa l’idea che su quel blue screen della camera d’isolamento si sarebbero potute proiettare cento-mille immagini diversamente, potenzialmente liberatorie. Mentre nulla, tutto prosegue secondo le traiettorie lucide di Soderbergh, che ha sempre più la capacità di coniugare la disponibilità al nuovo, la riflessione teorica e le strategie narrative convenzionali. E che qui trova il punto di coincidenza tra la professionalità e l’amatorialità, quasi come l’ultimo Eastwood. Ma l’obiettivo della iphone continua a inquadrare, a costringere. Seppur sembri chiaro chi siano le vittime e chi i carnefici della storia, nell’immagine leggermente spixelata dell’iPhone continua a prodursi un effetto scia collaterale inquietante, unsane. Chi è folle e chi è davvero sano di mente? Dove sta la verità?

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