#Berlinale68 – Utøya 22. Juli, di Erik Poppe

Erik Poppe ci trasporta direttamente sull’isola norvegese con questo strano ibrido fra finzione ed estremo realismo, film molto epidermico ma che apre a interessanti riflessioni. In Concorso

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È giusto chiedersi il motivo della realizzazione di un film?  Forse, se durante la visione di un film, ci iniziamo a porre dubbi di questo tipo, qualcosa è andato storto. Un conto è cercare il significato, un conto è chiedersi il perché. Durante la visione di Utøya 22. Juli, del norvegese  Erik Poppe, la  domanda si insinua spontaneamente. Lungi da chiamare in causa una questione morale non possiamo fare a meno di chiederci: qual è il motivo di un film del genere?

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La durata del film sulla strage dell’isola di Utøya(teatro del massacro del 22 luglio del 2011, ad opera di Anders Breivik,) è di 72 minuti, esattamente il tempo che, nella vita reale, ci è voluto prima che i soccorsi ponessero fine a quel delirio.  La storia dei personaggi che seguiamo è di pura finzione (anche se è ovviamente ispirata ai racconti dei sopravvissuti). A metà tra il thriller e il catastrofico, la trama di Utøia è alquanto scarnificata: seguiamo la protagonista Kaja che si separa dal suo gruppo di amici, alla ricerca della sorella minore Emilia, con cui ha un rapporto difficile. Sostenere che il film di Erik Poppe non ci tenga col fiato sospeso, sarebbe una bugia: nel  lungo  piano sequenza, la mdp corre con la protagonista ma a tratti le va addosso, come quel killer che può ucciderla da un secondo all’altro. La ragazza (amatissima dai compagni) cerca Emilia (più piccola e non curante degli altri) e intanto cerca ripari in quell’l’isola dall’estensione molto piccola. Incontra vittime, cerca di rincuorare i feriti. Di sottofondo gli spari, alla ricerca di un obiettivo in movimento, fra gli alberi, dietro ai cespugli, sotto la scogliera o nell’acqua fredda del luglio del Nord Europa. Nella fuga dai proiettili (mostri da cui fuggire di cui sentiamo solo il suono) viene spontaneo pensare a Cloverfield, per quelle riprese così partecipi della paura e dell’adrenalina dei protagonisti. Il punto è che se il film di Matt Reeves è una storia interamente inventata (fantascienza o monsters movie che sia), qui abbiamo la finzione che ricalca passo dopo passo la realtà. Erik Poppe stesso, al terminare dei titoli di coda, ci tiene a ribadire che la sua è un’opera di fiction e che non va assolutamente scambiata  per un documentario.

Noi siamo lì sull’isola, e la questione della durata identica fra finzione/realtà, ci rende ancora più partecipi. Ma vogliamo davvero esserci? Non possiamo fare a meno di pensare che il regista stia sfruttando una certa attitudine umana, quella che ci istiga a rallentare per guardare l’incidente sulla carreggiata opposta alla nostra. Viviamo Utøia, comodamente seduti su una poltrona, come se stessimo partecipando ad una sorta di simulazione virtuale. Ad invitarci a  partecipare è Kaja stessa, quando nella scena iniziale parla con la madre nell’auricolare e guarda in camera, abbattendo in un certo senso la quarta parete, proprio come se ci stesse invitando ad entrare lì e a mettersi in salvo con lei. Il film di Erik Poppe auspica sicuramente ad un risultato troppo istantaneo da ottenere e lo fa attraverso una regia e una narrativa certamente non innovative. Ma proprio mentre ci chiediamo ancora una volta il perché di un film del genere, ci ritroviamo anche a riflettere sulla potenza del mezzo cinematografico, sulle sue infinite potenzialià. Se non altro questo strano prodotto che è Utøya 22. Juli. apre a interessanti questioni.

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