#Berlinale68 – Yardie, di Idris Elba

L’esordio dell’attore dietro la mdp è un gangster movie dalla Giamaica a Londra, dal romanzo omonimo di Victor Headley. Più convincente tra i vinili reggae che tra le pistolettate. In Panorama

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Pur richiestissimo sul grande e piccolo schermo, Idris Elba trova il tempo di girare, per il suo esordio dietro la mdp, una sorta di Beast of No Nation giamaicano tratto dal romanzo omonimo di Victor Headley, primo della trilogia di avventure del gangster D., piombato da Kingston nella Londra multietnica dei primi anni ’80 dopo l’omicidio del fratello Jerry Dread, a fare da corriere della droga per il boss King Fox, e a cercare la propria vendetta.
Del film di Fukunaga che lo vedeva protagonista, l’Elba regista non mantiene la messinscena spietata ed esplicita, optando per un racconto malavitoso mediamente lontano dal sangue e dalle sequenze troppo violente, e da sottolineature troppo “pericolose” (con qualche omissione particolarmente grossolana come l’assenza, quando non proprio il rifiuto, del consumo di marijuana in scena, la stima degli spinelli che girano tra i personaggi è drasticamente troppo al ribasso…).

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E’ evidente come Elba, grandissimo esperto di roots culture di cui porta alta la bandiera tra documentari musicali, performance dietro il turntable e vere e proprie produzioni discografiche, sia soprattutto interessato a raccontare parallelamente la storia dell’esplosione del fenomeno del sound system nei quartieri popolari di Londra dai primi anni ‘70: D. arriva nella capitale britannica con una valigia piena di cocaina e vinili, spaccia droga alla stessa velocità con cui insegna ai ragazzini della periferia come costruirsi un impianto autogestito per mettere su una dancehall che riempia l’intero squat.
Mentre nell’aria girano classicissimi del genere come Zungguzungguguzungguzeng di

1276256_yardie4bbcfilms_583068Yellowman, tra le pareti soffocanti di quei club si incrociano le culture diverse di decine di comunità ai confini dell’Impero, africani, portoricani, turchi… E il film finisce per parlare la lingua contaminatissima e spuria del reggae, l’inglese del ghetto è una reinvenzione continua di slang, vocabolari e modi di dire acchiappati qua e là tra gli idiomi di provenienza.
L’apparato formale reagisce a tutta questa tensione per le strade e nei locali, nella casa di D. e negli studi di registrazione con una messinscena solida ma con il respiro non proprio ampissimo, le traiettorie dell’educazione criminale del protagonista non sfuggono ai passaggi canonici del genere, innervati soprattutto dal genuino coinvolgimento del cast nel mood dell’opera (come si può immaginare, il gangster rivale Rico, cocainomane e selecta, di Stephen Graham è una scheggia impazzita che meriterebbe un film a parte).

Però Elba ha l’intuizione molto lucida di focalizzarsi senza paura sulla spiritualità fortissima della religione Rastafari, e su come il movimento dall’isola alla capitale londinese sia sostanzialmente per un’intera generazione la venuta a patti della tradizione rasta con la propria cristianizzazione, che non può concepire l’ossessione di D. per le visioni del fantasma inquieto del fratello ammazzato, a cui dare pace solo con l’omicidio del baby killer che l’aveva freddato sul palco. Per questo il personaggio cruciale dell’intero impianto è alla fine la compagna del protagonista, Yvonne (straordinaria Shantol Jackson), che abbandona le credenze delle radici per la messa della domenica, vero punto d’incrocio di tutti i movimenti interiori, sociali, storici e sentimentali del film.

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