#Berlinale69 – Il corpo della sposa (Flesh Out), di Michela Occhipinti

Il dato geografico e sociale è il contesto forzato di una vicenda più intima, la storia di una ragazza alle prese con il proprio corpo in trasformazione e con gli abbagli della bellezza. In Panorama

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Dopo una lunga esperienza da giramondo e dopo tanti documentari e lavori per la TV, Michela Occhipinti decide, finalmente, di saltare l’ostacolo con il suo primo lungometraggio “di finzione”. Che mantiene però l’approccio dell’esplorazione, dell’osservazione e della scoperta. Ed ecco dunque la Mauritania, terra del deserto che scivola verso l’oceano, tra radici tuareg e dottrina islamica.

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Lì la giovane Verida, nel pieno dell’adolescenza e dei suoi sogni, si ritrova con un matrimonio combinato dai genitori da lì a tre mesi. Giusto il tempo di sottoporsi al tradizionale gavage (in arabo leblouh), la pratica di alimentazione forzata che serve a far prendere peso alle giovani ragazze, per renderle “appetibili” in vista delle nozze. Tazze infinite di latte, ciotole di cous cous e carne, fegato e cuore, dieci volte al giorno, un tour de force devastante, mentre il corpo cambia e si deforma a vista d’occhio. Un tempo era anche peggio, dice la nonna di Verida. Si faceva tutto in una notte, anche in tenera età, e c’era chi non sopravviveva. Eppure la ragazza non sembra affatto convinta. Guarda le amiche, il mondo intorno a lei. E sente che ci sono altre strade percorribili oltre il destino che le è stato imposto.

È un film di donne Flesh Out. Nel senso più letterale possibile: gli uomini sono praticamente esclusi, si vedono a stento, quasi sfocati, appaiono e scompaiono in un batter d’occhi. E se hanno qualche valore nel racconto, è solo in termini puramente funzionali, come nel caso di Sidi, il ragazzo che porta le bilance. Sarà perché sono inavvicinabili, non possono essere visti dagli sguardi bassi delle donne. O forse perché, davvero, in certe questioni il loro peso è irrilevante. A riprova di un matriarcato profondo, che riguarda la sfera domestica e familiare, ma che a partire da lì finisce per condizionare altre dinamiche. Del resto la Mauritania è un paese in cui le donne contano i mariti come fossero trofei e gli usi e i costumi assumono forme tutte particolari, mentre la pratica stessa del gavage sembra ormai avere un valore residuale.

Ma i vincoli della tradizione sono solo una delle questioni messe in campo dalla Occhipinti. Il mondo che racconta è “urbano” nonostante la sabbia che invade le strade, accoglie i segni della modernità, i cellulari, la musica… Le amiche di Verida parlano di ragazzi, di canzoni, di star della TV, sfogliano riviste patinate, frequentano saloni di bellezza, tra maschere, profumi ed henné,  progettano di esperienze all’estero, immaginano altre vite. E perciò il dato geografico e sociale è il contesto forzato di una vicenda più intima, quella di una ragazza che deve scoprire la propria bellezza tra i canoni imposti dalla cultura arcaica e il luccichio dell’invasione pubblicitaria. In questo senso, il film può essere considerato a tutti gli effetti un teen movie dislocato in un contesto esotico. Di certo è il racconto di una donna in cerca della propria identità, alle prese con i desideri e gli obblighi, con il proprio corpo in trasformazione. E quindi con lo sguardo, il modo di percepirsi e di essere percepiti (Verida che si nasconde sul terrazzo, per vedere senza essere “vista”).

Materia e superficie. È con coerenza, quindi, che la Occhipinti parte dalla concretezza del realismo, con il dato opaco degli ambienti, degli oggetti, dei costumi, delle usanze, dal corpo stesso della sua protagonista, Verida Beitta Ahmed Deiche. Per poi slittare progressivamente verso gli abbagli e le illuminazioni della visione, che sembrano rispondere a una prospettiva tutta soggettiva, un’impressione sentimentale ed emotiva. Forse l’immagine è leggermente ridondante quando assume i contorni dell’incubo e della minaccia (la scena del macellaio o della visita alla tenda della vecchia donna che costringe le giovani a ingrassare con metodi brutali). Ma si libera in quei giochi di luce notturni che trasformano i luoghi in impennate di trasfigurazione poetica. Fino a quell’ultimo sogno d’astrazione, di doppia smaterializzazione. Il corpo si fa riflesso nell’acqua e perde volume e peso. Poi l’acqua si ritira dal bagnasciuga. E anche il riflesso scompare.

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