#Berlinale69 – L’adieu à la nuit, di André Téchiné
La geopolitica è anche una questione privata. Per questo Téchiné, nel raccontare di un problema globale, si concentra innanzitutto su una dimensione privata. In concorso
C’è sempre un che di passato nel cinema di Téchiné, la sensazione di immagine un po’ antiche, quasi ci trovassimo di fronte a un’altra epoca della storia e della visione. A cominciare da quegli alberi di ciliegio in fiore che aprono L’adieu à la nuit scorrendo davanti ai nostri occhi, fino a una leggera evanescenza da veduta impressionista. Poi tutto resta essenziale, sul piano di un linguaggio asciutto, di pura economia espressiva. Come un abito leggero, appunto. Ma è proprio ciò che consente questo strano processo di “normalizzazione” del suo cinema, che sta sempre a metà strano tra l’abnorme e il quotidiano, tra il caso limite e l’ordinario. Anche qui Téchiné affronta questioni urgenti, scottanti, “globali”, ma da una prospettiva ridotta, comune, provinciale quasi.
Muriel vive in campagna, gestisce un maneggio di cavalli e manda avanti una fattoria. Le lezioni di equitazione, la cura degli animali, il raccolto, i ciliegi in fiore, i cinghiali che invadono la piantagione. Questioni di ordinaria amministrazione, insomma. Dopo tempo, viene a trovarla suo nipote Alex, in procinto di trasferirsi in Canada. Almeno stando a quanto racconta… In realtà, il ragazzo ha ben altri progetti. Si è convertito all’Islam, su spinta di Lila, sua tenera amica sin dagli anni dell’infanzia. E i due sono determinati a unirsi alla “guerra santa” contro i profani.
Lo spettro del terrorismo che irrompe in una piccola comunità, ma non, come sarebbe legittimo aspettarsi, attraverso dinamiche di paura e di esclusione. La convivenza è un dato. E il conflitto e la minaccia non sono elementi agitatori esterni, non irrompono da fuori, germogliano da dentro, fanno parte delle cose, a cominciare dei rapporti familiari.
La scrittura di Téchiné (accompagnato nell’ideazione da Amer Alwan e in sceneggiatura da Léa Mysius) dissemina nel racconto le tracce del vissuto dei personaggi: l’infanzia di Muriel in Algeria, la morte della figlia, madre di Alex, il rifiuto del ragazzo nei confronti del padre che si è risposato in Guadalupe. La geopolitica, con le sue tensioni vecchie e nuove, è anche un affare privato, s’intreccia e si salda con le esperienze di vita, con la trama delle relazioni quotidiane.
Per questo appare del tutto logico che L’adieu à la nuit si concentri innanzitutto su una dimensione familiare. Fino a rischiare l’inconsistenza e la superficialità rispetto alle grandi questioni del terrorismo globale, dei foreign fighters, dei perché e per come. Dire, come fa Fouad, il jihadista pentito, che i giovani scelgono la jihad per trovare un senso nelle loro vite vuote, per sentirsi finalmente importanti, sembra fin troppo scontato. Sostenere che “non c’è ragione” assomiglia a una rassegnazione fatalista. Su questo si rimane al livello di pura percezione di un fenomeno. Ma Téchiné non prova nemmeno a scavare nelle motivazioni e nelle psicologie. Cerca di stare sui fatti, sui comportamenti e sulle azioni, per ritrovare quelle tracce di tensione e l’immediatezza dello sguardo sull’adolescenza, che sono propri del suo cinema. E se non emerge davvero mai la minaccia della normalità di questi ragazzi, se Lila e Bilal rimangono senza dimensione, quasi fossero pure funzioni strumentali della narrazione, il rapporto familiare resta centrale e dà profondità al film. Ma più che nella prospettiva di Alex – un Kacey Mottet Klein taciturno e teso come già in Continuer di Joachim Lafosse – è nel personaggio di Muriel che Téchiné trova appiglio. Nella purezza espressiva dei gesti minimi di una Deneuve sospesa tra la libertà e il controllo, tra il cuore e la testa.