#Berlinale69 – Öndög, di Wang Quan’an

Un thriller ipnotico, di suoni e colori, con la steppa mongola filmata come un fantasy. L’esito più felice e copiuto di un cinesta diseguale, che aveva vinto l’Orso d’oro con Il matrimonio di Tuya

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Il cinema del regista e sceneggiatore cinese Wang Quan’an è indissolubilmente legato alla Berlinale. Qui ci ha vinto l’Orso d’oro nel 2007 con Il matrimonio di Tuya, ci ha presentato il suo primo film, Lunar Eclipse nella sezione Forum nel 2002. Sei dei suoi sette lungometraggisono passati di qui. Ed è stato anche uno dei membri della giuria nel 2017.

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Ha spaziato diversi generi. Dal melodramma (Apart Together) al film in costume (White Deer Plain). Quasi un sospetto dalle parti di Chen Kaige. Con però un maggiore legame fisico con la terra, E il suo nuovo lavoro, Öndög, appare inizialmente sulla linea di Il matrimonio di Tuya. Ma che poi è qualcosa di profondamente diverso. Dove la terra diventa ancora qualcosa di familiare. Lì c’era una donna, costretta a cambiare vita, per non abbandonare il suo gregge di cento pecore. Al centro di Öndög c’è ancora una donna forte e risoluta. Anche lei un pastore. Di circa 35 anni. Che collabora con un poliziotto che indaga sul caso di una donna nuda che è stata uccisa nella steppa mongola. Perché conosce bene il territorio. E sa come spaventare i lupi.

Quasi un thriller. Basato su una storia vera. Con il paesaggio che diventa un elemento decisivo. Il rumore degli spari. Il fuoco acceso. Con l’inizio, con le luci dell’auto, che appare come una lunghissima e interminabile soggettiva. Dispersi nel buio. Dove Wang Quan’an tratteggia abilmente la sua ‘apocalisse nel deserto’. Dove il senso dello spazio appare ancora più consapevole del suo film più famoso.

Attorno a Öndög c’è il vuoto. E le parole, anche quelle delle canzoni, possono disperdersi nel nulla, E lì ci sono i necessari momenti di ironia con il poliziotto che sente brani famosi, tra cui Love Me Tender di Elvis Presley. Ma che filma anche una scena di sesso con un’intimità e un pudore ammirevoli.

C’è lo spazio. Il cielo che cambia. Quasi dei quadri vivi in una strana e contagiosa dimensione fantasy. In un cinema che, con i suoi colori stordenti e i motivi sonori, diventa progressivamente sempre più ipnotico. Forse l’esito più felice di un cineasta che, fino ad ora, era apparso più furbo che autentico. La Mongolia di Öndög apre invece altri, inaspettati, orizzonti. Dove il punto infinito si può raggiungere con lo sguardo. Anche al buio. Nel punto più lontano.

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