#Berlinale69 – Synonymes di Nadav Lapid, vincitore dell’Orso d’oro

Il nostro ritorno sul film che ha ottenuto il massimo riconoscimento in questa edizione del festival, astratto nella condizione rappresentativa autobiograficamente Nouvelle Vague

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Un film sulla nudità della parola, sull’ineffabile identità dell’uomo posto di fronte al rifiuto della propria storia: le categorie di riferimento di Synonymes sono immediate, non lasciano margine di visione alternativa, Navad Lapid le pone in campo con una semplicità di fronte alla quale ci si ritrova a propria volta spogliati di ogni abito interpretativo. Yoav, il protagonista, è reduce dall’immanenza irrazionale del servizio militare, in fuga dalla marzialità subita, in cerca di nuova vita nel ventre caldo di una Parigi idealizzata, dove ritrattare le proprie origini, il suo essere israeliano, la sua stessa lingua. La testa bassa sul selciato, per non concedere nulla al fascino turistico parigino, cerca una nuova lingua e dunque arrotonda nel suo accento ebraico un aulico francese col quale costruire per sé un nuovo stato identitario. Gli sono ospiti Emile, giovin e ricco intellettuale del piano di sotto, e la sua compagna Caroline, suonatrice di corno: lo trovano nel suo appartamento vuoto, lo vestono con un cappotto color cammello, Emile ascolta le storie che lui gli dà in dono per il libro che sta scrivendo, Caroline accetta di sposarlo per dargli una nuova patria… Intanto agenti del Mossad tagliano la strada alla sua corsa, cercano di reintegrarlo nelle fila dei servizi, ma Yoav ha altri punti di riferimento, sostituisce nel suo immaginario fondativo Davide e Golia con Ettore e Achille, il cui destino finale il padre gli ha occultato nelle letture d’infanzia. La sua disintegrazione come ebreo israeliano non corrisponde propriamente alla sua integrazione parigina, il punto di contatto si sposta in funzione del peso solido di un corpo che deve necessariamente collocarsi in uno spazio e in un tempo, ovvero in un luogo storico di cui esser testimone. Non basta l’atto di volontà a negare e rifondare la propria identità, la sua fuga nel segno della poesia è conseguente a quella del piccolo Yoav di The Kindergarten Teacher (Haganenet, 2014), il film precedente di Lapid, di cui Synonyms potrebbe idealmente essere una sorta di seguito astratto. Yoav è un corpo che cerca di opporsi come pura idea alla concretezza del mondo, giocando senza artificio con la realtà, adottando con l’ingenuità di un bambino: l’esordiente, straordinario Tom Mercier è stato davvero un dono che il dio del cinema ha fatto a Lapid, vera e proprio incarnazione originaria dell’idea stessa del film. La sua attitudine (di Yoav e di Mercier…) è sublime e enfatica allo stesso tempo perché non ha misure da rispettare e il film fa propria questa condizione, proponendosi con un filmare all’ultimo respiro, in cui accettazione e rifiuto sono gli assi su cui si costruisce il sistema di riferimento di Yoav.

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Synonymes è un film astratto nella condizione rappresentativa autobiograficamente Nouvelle Vague vissuta dallo stesso Nadav Lapid nei suoi giorni parigini, quando stava per entrare in contatto col cinema ed era piuttosto come Emile, un aspirante scrittore… La sua forza sta nella radicale e disarmata  verità ideale con cui si offre al progetto di un uomo che prova a definire se stesso contro la propria storia, basandosi sull’indicibilità dell’amore, sulla solitudine di chi esprime l’innamoramento nella fuga da sé. Proprio come Ettore, che vince il suo coraggio di guerriero e fugge dinnanzi ad Achille…

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