#Berlinale70 – Dispatches from Elsewhere (ep. 1 e 2), di Jason Segel

In Berlinale Series ritorna la contagiosa tenerezza degli script di Jason Segel, impegnato in una serie mindgame che nasconde sotto il puzzle pop l’abituale umana fragilità delle sue storie d’amore

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Dopo il tentativo “serio” dell’aver impersonato David Foster Wallace in The End of the tour, Jason Segel dava tutta l’impressione di aver abbracciato quello stesso percorso indeciso e un po’ in stallo confuso a cui sembrano destinati, quantomeno attorialmente, i suoi compari come Seth Rogen che non sono ancora diventati un supereroe Marvel. In un certo senso, Dispatches from Elsewhere risponde a opere seriali come Maniac o Living with yourself, che coinvolgono buddies di Segel come Jonah Hill o Paul Rudd: la buona notizia è però innanzitutto che lo sguardo dolcissimo a cui dobbiamo gli script di opere straordinarie come Non mi scaricare o Five year engagement è tornato a scrivere – la serie AMC di cui Berlinale Series ha mostrato i primi due episodi (il pilot porta anche la regia di Jason Segel), e che vedremo verosimilmente su Prime Video, reca chiarissima quella tenerezza che abbiamo imparato a riconoscere nel Segel sceneggiatore anche in opere come I Muppets, una cifra decisamente più personale di titoli come The Discovery o The Friend in cui il comedian è apparso ultimamente.

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La passione per le sequenze musicali e per i brevi frammenti nonsense dalla comicità visionaria fulminante, l’umanità tangibile di personaggi dalla fragilità contagiosa (anche quelli maggiormente caricati e caricaturali): se da un lato Dispatches from Elsewhere non riesce stilisticamente a discostarsi dalla serialità mindgame sepolta dagli ammiccamenti pop di ultima generazione, dall’altro è per l’attore-autore soprattutto il racconto di un amore inaspettato e forse impossibile, dell’istante pulviscolare dell’innamoramento tra il protagonista Peter (lo stesso Segel) e l’irresistibile Simone, che da bambina era un maschietto (la strepitosa Eve Lindley, la vera sorpresa del lotto).
Il puzzle che coinvolge questi personaggi (tra cui anche André 3000 degli Outkast e Sally Field) prende ispirazione dal gioco in realtà aumentata Jejune Institute, che costringe i partecipanti a decriptare enigmi in giro per tutta San Francisco, alla base già del documentario The Institute e molto probabilmente anche dell’espediente iniziale della seconda stagione di The OA.
Questo porta obiettivamente la serie ad un eccesso di macchinosità che si riflette nella voracità formale con cui gli episodi macinano flash stilistici eterogenei tra animazione e videoclip (musiche come al solito maiuscole di Atticus Ross), tutto tenuto insieme da una voce narrante (appartenente all’mc di questo role play metropolitano, Richard E. Grant) che gioca apertamente con lo spettatore e con le informazioni in nostro possesso: Segel cerca di riportare il mood ad una dimensione da serialità fantastica vintage alla Twilight Zone, ma i tempi sono quelli di Bandersnatch, per dirsi l’un l’altro di essere finiti in una realtà alternativa i protagonisti tra di loro citano Amélie, mica Lynch.
Resta comunque da sperare che negli episodi che seguiranno Segel e la sua squadra di autori e registi a rotazione riusciranno a mantenere l’accento sui rapporti umani tra queste figure così vicine a noi (“immaginate Peter/Simone come foste voi”, ci viene detto all’inizio di ogni puntata), fingendo di distrarsi il più possibile dalle traiettorie ben meno entusiasmanti della ricerca cervellotica di questa fantomatica Clara che ha lasciato tracce di sé per tutta Philadelphia, scienziata ribelle contesa tra la corporata Jejun e il collettivo antagonista Elsewhere (“sono come Occupy”), per conquistare l’agognata “nonchalance divina” che potrà salvarci tutti.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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