#Berlinale70 – Siberia, di Abel Ferrara

In Concorso, Abel Ferrara traghetta definitivamente la cristologia fondativa del suo cinema verso il flusso cosmico della meditazione buddista che abita le sue visioni recenti con Willem Dafoe

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Siberia, che dopo un iniziale tentativo di crowdfunding è stato girato circa un anno fa tra le vette solitarie e la natura spigolosa dell’Alto Adige grazie a Vivo film con Rai Cinema, maze pictures, Piano e The Match Factory, è con ogni probabilità l’opera di Abel Ferrara più abissalmente distante dalla propria mitologia di peregrinaggi urbani. Il progetto del film risale al dopo-Pasolini, e sembra esplicitamente recuperare alcune suggestioni letterarie delle tarde opere dello scrittore di Petrolio, abitate da una free form che procede per frammenti, microstrutture erratiche, accensioni improvvise. In quest’ottica, le immagini di Stefano Falivene e il montaggio di Fabio Nunziata e Leonardo D. Bianchi reagiscono al riferimento recuperando l’inquietudine da incubo che abitava le sezione proprio del film dedicato a Pasolini in cui Ferrara tentava di mettere in scena lo script impossibile di Porno Teo Kolossal.
Allo stesso tempo, in maniera ancora più esplicita in confronto al coevo Tommaso, girato in modalità guerriglia nell’attesa di completare la lunga e complessissima postproduzione di Siberia (in sostanza una vera e propria seconda scrittura del film), quest’ultimo lavoro di Ferrara traghetta la poetica del cineasta dalla cristologia fondativa del proprio universo narrativo (che pure rimane, tra miracoli dei pesci e peregrinaggi nel deserto) alla fede buddista nella meditazione che giustifica il flusso sempre più “cosmico” di queste opere recenti.

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Clint, il protagonista interpretato da Dafoe, dona ristoro ad una serie di apparizioni nel suo rifugio di legno in cima ad una montagna inospitale ed innevata. Nonostante tutti parlino lingue diverse, riesce sempre a capire quale vodka versare nei bicchieri dal bancone degli alcolici (mentre Willem in Tommaso non riusciva mai a farsi capire da nessuno, in famiglia o in giro per Roma…). La percezione continua è che la baita sia costruita sulle storie che Clint legge nei suoi libri, che immagina mentre scruta l’orizzonte innevato fuori dalla finestra, sogni ad occhi aperti nella penombra dell’abitazione. L’incontro con una donna incinta (Cristina Chriac, la compagna del regista) scatenerà nell’uomo la volontà di intraprendere un viaggio all’esterno, per fare i conti con i demoni che tormentano il suo inconscio: una serie di visitazioni che tengono insieme riferimenti alla memoria cinematografica del western e del film d’avventura (il gulag heavy metal…) con un’esplorazione dell’interiorità del protagonista e dell’attore Dafoe, dei suoi traumi da bambino e adulto (torna la scrittura di Christ Zois, psichiatra e sceneggiatore della fase post-St. John di Ferrara), attraverso la connessione con diversi luoghi e oggetti-simbolo del suo passato e della Storia, dal paio di occhiali del padre a bisturi, vinili, soldatini di legno.

Come se fosse oramai impossibile dividere, tra le immagini nella nostra testa, quanto abbiamo realmente visto e vissuto, da quello che abbiamo filtrato dal cinema o dalla letteratura con cui siamo venuti in contatto. È ancora possibile per lo sguardo del cinema recuperare una forma insieme inedita e arcaica, nuova e primordiale, purificata e “magica”? Sembra questa la vera sfida di Siberia, e dei diversi sdoppiamenti in personaggi-specchio che Dafoe affronta lungo il suo trip (il cui primo raddoppio, come dicevamo, è il Clint che “guarda” letteralmente il film da fuori, come esplicitamente dichiarato dai dialoghi e dalle posizioni “sulla soglia” assunte di frequente dal personaggio sulla scena).

La ricerca di Ferrara, come ci ha raccontato mentre finiva di montare Siberia, è nella direzione di un linguaggio universale capace di rigerenarsi senza fine, come sottolinea il reiterato ricorso alle strutture e alle forme circolari nel film, fino al diavolo-derviscio che balla Runaway di Del Shannon girando sulla spina dorsale: quel rifugio di montagna dell’incipit contiene tutto il cinema di Abel (la slot machine…) ridotto all’osso fino a far restare in luce solo il volto scavato, anzi i volti, di Willem Dafoe, e dunque non può che essere raso al suolo nel finale, per liberare ancora una volta la natura potentemente antialfabetica delle sue immagini.
Non c’è via crucis né salvezza stavolta, a differenza dei vicini 4:44 o, di nuovo, Tommaso, quanto la consapevolezza, filtrata dagli insegnamenti di Jung e Nietzsche, che la nostra anima vaghi dall’inizio dei tempi in posti nascosti e bui che precedono le impalcature della visione “civilizzata” della vita, come accadeva al cinema delle origini (Siberia è d’altronde in più di un senso un film “muto”, accompagnato dal pianoforte di Joe Delia). You’re not a saint, so be human… and dance!

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.67 (3 voti)
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