#Berlinale70 – Swimming Out Till the Sea Turns Blue, di Jia Zhang-ke

Anche se sembra concedersi una pausa, Jia conserva la densità della sua prospettiva. E racconta di come si costruisce la narrazione di una vita, di una comunità, di una terra. Berlinale Special

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Dopo anni Jia Zhang-ke torna al documentario, una delle radici profonde della sua opera, e lo fa per anche raccontare la sua nuova invenzione. Dopo il festival del cinema di Pingyao, un festival di letteratura a Lüliang, proprio lì dove c’era il villaggio della famiglia Jia, nello Shanxi. L’ennesima scommessa di un autore che sta provando a trasformare il tessuto materiale di una comunità attraverso l’immateriale… Ma vista l’occasione del progetto, si potrebbe anche sospettare che Swimming Out Till the Sea Turns Blue sia un’operazione sostanzialmente pubblicitaria. Così come potrebbe sorgere il dubbio che il cinema di Jia si stia, in qualche modo, normalizzando a causa del suo impegno attivo di politica culturale. Quasi fosse diventata una voce istituzionale, la sua. Del resto il film sembra rispecchiare tutti i canoni del classico documentario, con le interviste, le testimonianze ecc. Come per darsi un istante di riposo dopo le grandi architetture narrative de Il tocco del peccato, Al di là delle montagne, I figli del fiume giallo, Jia azzarda solo una costruzione per capitoli, proprio come se si trattasse di un libro. Ma poi procede tranquillo, tra primi piani, visioni dall’altro, musiche e arie liriche (c’è persino Con te partirò…). Eppure la verità, come sempre in Jia Zhang-ke, è che il cinema squarcia lo spazio del reale per aprirlo a una dimensione ulteriore, per farne un’altra materia cellulare, fatta di sentimenti, idee, emozioni, intuizioni purissime.

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Jia continua a tessere la sua infinita tela che intreccia il piccolo al grande, la storia personale con quella politica e sociale, la vita rurale con le nuove traiettorie del mondo globale. E lo fa, qui, a partire dalla scrittura e dall’inesauribile necessità della narrazione.  Gli scrittori che incontra, Jia Pingwa (Ruined City, Broken Wings) Yu Hua (Vivere!), Liang Hong (China in Liangzhuang, Going Out of Liangzhuang), non possono far altro che raccontare le loro storie e riportare, quindi, la letteratura alla radice delle loro esperienze. Certo, lo fanno a modo loro, con la personale sensibilità del racconto e della parola, con l’eleganza, l’ironia, l’empatia più profonda. Ma si parte dalla vita e si torna alla vita, se tutto questo ha un senso. Ed è così, a partire da questo punto luogo comune, che Jia apre lo sguardo alla sua terra e alle persone che la abitano, da sempre o da poco non importa. Ci sono i vecchi che ricordano le vicende del villaggio della famiglia Jia e, soprattutto, di Ma Feng, funzionario e scrittore di Lüliang, uno dei più noti cantori della vita rurale. Ci sono i lavori di sempre, seppur con mezzi nuovi. E ci sono i ragazzi che hanno dimenticato il dialetto, ma non l’urgenza di un’appartenenza. Ed è come se, in un certo senso, il racconto orale si unisse alla parola scritta per il tramite dell’immagine, capace di dar corpo a entrambi. Perché Jia conserva intatta la densità della sua prospettiva e quella capacità straordinaria di scolpire nella memoria i volti che inquadra, incisi nella materia più viva. E parla di come si racconta. Di come si costruisce la narrazione di una vita, di una comunità, di un terra. Di come si fa poesia a partire da ogni cosa, dalla sostanza e dall’effimero, dal grano, dal sorgo e dall’acqua.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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