BFM35 – Storie di padri, storie di figli

Viaggia nel segno del ricongiungimento, nella riscoperta del rapporto tra figli e genitori il molteplice percorso filmico dei diversi lungometraggi di quest’anno del Bergamo Film Meeting

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Viaggia nel segno del ricongiungimento, o quantomeno della sua ricerca, del bisogno suscitato da un’assenza che diventa presenza avvolgente e fondativa, il molteplice percorso filmico in cui si inseriscono diversi lungometraggi di questa edizione del Bergamo Film Meeting, che racconta da diversificati punti di vista (anche geografici) il rapporto tra genitori e figli. Immerge lo sguardo totalmente dentro un discorso sulla paternità Waldstille, di Martijin Maria Smits, un discorso che tuttavia si muove preferenzialmente attraverso spazi e silenzi e sguardi, tutto imperniato con aderenza estrema alla straordinaria mimica di Thomas Ryckewaert, nella sua interpretazione di Ben, waldstille1personaggio che si ritrova dopo un incidente nel quale ha perso la vita la sua compagna, e gli anni in carcere, a vedersi negato il diritto di vedere la figlioletta. Il film viaggia con continui strappi, togliendo il più possibile allo spettatore la linearità del racconto, una sorta di gioco, “come quando ero piccolo, mio padre faceva i puzzle e io gli rubavo i tasselli”, dice il regista olandese presentando la sua opera prima. Ma l’assenza di una densità narrativa, in una trama che parte da premesse non troppo originali, si rispecchia in quella che è una necessaria centralità assoluta del personaggio principale, e che rende interessante il linguaggio del film, attraverso un incedere discontinuo che si sintonizza sulla sua emotività, focalizzata interamente non sul perché ma sul cosa. “Nella mia lingua, ‘ich ben’ significa ‘io sono’ e il personaggio di Ben è infatti costruito in maniera narcisistica, è un personaggio che pensa soltanto dal suo punto di vista, è totalmente irrazionale ed emotivo”, e in Waldstille la mdp è impregnata empaticamente nell’egotismo sfrenato di Ben. Uno sguardo desiderante, che vive il sentimento della paternità come un bisogno che si esterna materialmente, un sentimento fortissimo ma immaturo e difficile da metabolizzare. Un sentimento, delineato in questa coinvolgente storia di un rapporto padre-figlia, pregno di rabbia, disperazione e tenerezza al contempo, reso con lucida inesplicabilità e forza visiva –ho visto il personaggio un po’ come un cowboy che torna nel suo villaggio per la redenzione” commenta il regista durante l’incontro con il pubblico per la presentazione del suo film. Waldstille è anche un luogo, paesino immaginario del quale ha rivestito le fattezze il paese d’origine di  Martijin Maria Smits: “un paese piccolo è claustrofobico, lì non puoi nasconderti tutti sanno cosa stai facendo. Mentre giravo, in effetti mi sono reso conto che stavo ricreando l’aspetto del mio paese d’origine, ma all’inizio non volevo fare le riprese lì perché lì tutti mi conoscono”.

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E si impernia sulla claustrofobica e soffocante pervasività di un luogo, il proprio luogo d’origine, anche Toril del francese Laurent Teyssier, storia di un padre schiacciato dai debiti, che tenta di togliersi la vita, e di un figlio, Philippe, che tenta di salvare la terra della sua famiglia, invischiandosi in affari loschi troppo più grandi di lui. Anche qui c’è un discorso sulla redenzione, che viaggia anch’essa su binari di ineluttabilità, e ancora una volta il motore – tenero, disperato, incomunicabile, fortissimo – che fa decollare l’apparato narrativo, e schizzaretoril1 il protagonista lungo traiettorie emotive che ne segnalano una prorompente voglia e necessità di ribaltare le carte in tavola, è l’amore, l’amore filiale in questo caso. Toril appare come un dramma assolato, rurale, in cui abbondano (a tratti eccessivamente) gli snodi narrativi. Eppure, se si spoglia il lungometraggio dalle apparenze di genere, intrappolate senza troppa originalità tra dramma familiare e gangster thriller, ciò che rende davvero evocativa l’opera prima di Teyssier è il discorso generazionale: non solo quello legato al rapporto tra generazioni, ma quello che più profondamente si allaccia alla relazione che i giovani (quelli di oggi, soprattutto) intrattengono con le proprie origini, con la propria terra, intesa in tutte le accezioni possibili.
Tenta in questo senso di metabolizzare e trasformare in discorso artistico questa tematica, il film rumeno Hotel Dallas, documentario creativo di Livia Ungur e Sherng-Lee Huang della sezione Visti da vicino: qui il rapporto con il passato, con l’eredità che segna i figli, viene esplicitato in un originale e interessante lavoro di composing che si impernia tutto sulla riedizione della serie tv Dallas. Unica serie televisiva trasmessa in Romania negli anni ‘80 allo scopo, così si diceva, di mostrare la rapacità e la corruzione del capitalismo americano, Dallas ha profondamente segnato l’infanzia e la vita di Livia. Suo padre, l’oligarca Ilia, si presenta infatti come il J.R. rumeno, mentre mostra – sulle note di una divertente canzoncina autoreferenziale – la colossale ricostruzione del ranch ispirato alla hotel dallassoap, un enorme albergo, con vista su una riproduzione in scala della Torre Eiffel. Composta con uno stile vivace, originale ed eterogeneo, il film viaggia attraverso lo sguardo del personaggio buono della serie Bobby Ewing (nella voce dell’attore Patrick Duffy), denominato ironicamente “Mr. Here”, mentre interagisce con Livia in un viaggio che ricalca la trama dello sceneggiato tanto amato dalla co-regista. Con la sua interpolazione di immagini e suoni – che mischiano pop rumeno, cultura televisiva, filosofia, riedizione post-produttiva della fotografia e riproposizione parodistica – Hotel Dallas è il coraggioso atto di una figlia che senza reticenze rielabora in una riflessione artistica, poetica e lucidissima, la propria storia familiare e non solo.

Infine, un’altrettanto commovente e lucida riflessione sul rapporto padre e figlia, proviene dall’Ecuador, nella sorprendente opera prima di Ana Cristina Barragán, Alba. Questo racconto, così delicato eppure vibrante, della storia di Alba, ragazzina cresciuta nella convivenza con la madre malata che si ritrova all’improvviso a dover vivere con un padre quasi sconosciuto, non è semplicemente un interessante e intenso coming of age. Alba è il densissimo percorso identitario di una personalità in piena formazione, scissa tra il desiderio di essere accettata a tutti i costi e una conoscenza fin troppo precoce dei dolori della vita – espressa con disarmante intensità dall’interpretazione e dalle stesse fattezze della giovane attrice Macarena Ariasalba2, con i suoi tratti delicati e al contempo marcati –, nella sua (ri)scoperta di un genitore latitante. Ana Cristina Barragán compie un lavoro di grande delicatezza, seppur con una tendenza alla stratificazione di dettagli drammaturgici che spesso rischia di strozzare la freschezza della storia proposta, nel raccontare la sua protagonista: la segue, la osserva di nascosto, la attende, osserva il mondo attraverso i suoi occhi mantenendo un’empatia misurata che ne trattiene lungo tutto il film il punto di vista. Un punto di vista infantile, confuso, che cerca di mettere a fuoco questo padre così incomprensibile, sbirciato sempre di sottecchi, mai pienamente o frontalmente indagato né afferrato. E nei lunghi silenzi che viaggiano accanto ad Alba nella sua vicenda, la regista si prende degli spazi per riannodare i fili, per mostrarci anche la tenerezza muta di un padre che cerca di ritrovare il rapporto con sua figlia, un rapporto che si scioglie in un abbraccio difficile da dimenticare.

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