BFM36 – Wild Roses, di Anna Jadowska e Apostasy, di Daniel Kokotajlo

Per la “Mostra Concorso” del Bergamo Film Meeting due film sulla crisi interiore del soggetto: dal difficile dilemma della maternità alle restrizioni causate da un credo esasperato nella religione.

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Collocato nella sezione “Mostra Concorso” del Bergamo Film Meeting, il lungometraggio diretto dalla giovane eppure già prolifica regista polacca Anna Jadowska, Wild Roses, è un vero e proprio attraversamento lento e silenzioso di “luoghi mentali”. La regista ci pone accanto alla solitudine della protagonista Ewa fin dai primi istanti in ospedale; costruisce intorno alla donna uno spazio grigio aperto alla crisi, senza raccontare nei fatti nulla di lei né delle ragioni del suo isolamento dal mondo. Ecco allora un film disseminato di indizi dappertutto, tra il poetico e il senso dello spaesamento più profondo: la nebbia fitta, la palude, la casa di famiglia disastrata, il sangue sul materasso, gli sguardi smarriti tra moglie e marito; ma soprattutto sterminati campi di rose selvatiche che Ewa raccoglie quotidianamente per partecipare al sostentamento familiare, ove incontrerà un giovane amante perdendosi nel flusso del verde naturale e del vento. Ewa diventa, dunque, giovane moglie e madre fedifraga, giudicata dalla mediocre società che la osserva dall’esterno senza vederla mai davvero: l’invito pressoché insistente della madre a “vestirsi” prima di uscire di casa e mostrarsi in pubblico, come gli sguardi e le aspre parole giudicanti della figlia Marysia, che le rimprovera ancora una lunga assenza inspiegata, sono il prezzo da pagare per un errore commesso e mai problematizzato. La scomparsa tra i campi del piccolo Jaś rappresenta l’ultima di una serie di penose tappe interiori che la protagonista dovrà attraversare per fare i conti con la realtà, con quel dilemma del materno al quale non sa ancora rispondere, ma anche per avere un unico vero confronto con un marito divenuto sempre più assente e cieco di fronte al suo dramma interiore.
Jadowska segue una linea di estrema eleganza nell’accompagnare la donna in questo percorso segreto, intimo e solo apparentemente statico; il senso forte dello stare con il personaggio permea l’intera visione, invade lo spazio stesso – anch’esso protagonista indiscusso della vicenda – , facendosi in ultimo racconto esistenziale puro. Non c’è approccio moralizzante rivolto contro questa donna che torna, in ultimo, a riprendere il figlio che aveva deciso di dare in adozione. C’è invece il limbo che Jadowska riesce sapientemente a costruire intorno ai suoi silenzi, appunto tra le “rose selvatiche”.

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Il film del regista e sceneggiatore inglese Daniel Kokotajlo – sempre per la “Mostra Concorso” – apre anch’esso a uno spazio di crisi interiore, questa volta inscindibile da un credo – quello dei Testimoni di Geova, ai quali il regista stesso è stato legato nel passato – , che diventa ostacolo ai rapporti umani, alla vita e all’integrazione nel mondo laico. La fede in Geova è, però, anche carica di dubbi che vengono espressi attraverso il personaggio della giovane Alex – alter ego esplicito del regista – ma anche e soprattutto mediante un dialogo costante e ossessivo tra i “fratelli” della Congregazione che riprendono la Parola dei testi sacri, la quale ricorre anche a intermittenza tra gli interstizi del film. Perché di un film sulla parola si tratta, nel concreto: la parola divina in urdu che le ragazze stanno imparando e che diffondono per le strade del paese; quella – l’unica e assoluta – di Geova che soffoca i fedeli con le sue restrizioni e previsioni apocalittiche anziché guidarli nel mondo e che si incarna, storpiandosi, tra gli Anziani assumendo le sembianze di un “tribunale divino” e ipocrita; infine, quella negata alla madre Ivanna verso la ribelle figlia Luisa, colpevole di avere perso la fede nella Verità condizionata, di non essersi pentita di questo, ma soprattutto di opporre alle convinzioni dei “padri” le proprie idee («Le sue risposte a volte sono sbagliate»).


Nell’operazione, senz’altro autobiografica, di Kokotajlo traspare il desiderio forse anche di rivalsa nei confronti di un universo molto poco noto nei suoi veri caratteri al resto del mondo, proprio a causa di un isolamento deliberato verso la laicità; in questo però, finisce per emergere una posizione fin troppo rigida del regista, che mette nel (suo) calderone da “ex Testimone” una morte precoce, una figlia incinta e abbandonata e una madre alle soglie della follia che tenta di rapire la nipote in nome della fede. Una sorta di “fondamentalismo” spietato di Geova, messo nelle mani di una ristretta società dove a comandare sono gli uomini, che finisce per cadere inevitabilmente sotto il giudizio (anche) dello spettatore – a qualunque credo esso appartenga – , alimentando quella distanza che per altri versi e ragioni “quelli di Geova” hanno già ben consolidato nelle loro pratiche consuete. Unica nota di spensieratezza, seppur fugace, avrebbe potuto essere l’amore nascente tra il timido Anziano e la martire-Alex, ma nel film Kokotajlo decide di non dare spazio neanche a quest’unico momento di vita: la ragazza viene lasciata morire a causa di una grave anemia, alimentando ancora e sempre la colpa dei Testimoni da parte di chi li osserva da fuori. Il mondo vero resta letteralmente escluso dal film, i contatti con esso ridotti al minimo, ma neanche questa ipotetica claustrofobia della comunità religiosa viene resa con efficacia a partire dalla sua stessa interiorità, perdendosi tra fatti più che sentiti, giudicati dall’alto, alla maniera stessa di Geova.

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