Big Fish e Begonia, di Xuan Liang e Chun Zhang

Alla ricerca di un pesce rosso che si muove tra il mare e il cielo, la giovane Chun esce dal mondo degli “Altri” per confrontarsi con la dimensione umana e il suo destino. Animazione cinese

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“Alcuni pesci non possono essere mai catturati, perché appartengono al cielo”. Mentre un gruppo di delfini rossi si muovono in modo circolare dentro uno spazio indefinito, che potrebbe essere il mare, il cielo oppure qualche dimensione in mezzo, la riflessione dell’inizio di Big Fish & Begonia – film dei cinesi Xuan Liang e Chun Zhang che unisce il disegno classico all’animazione digitale – segna il suo personale paradosso: a quale dimensione vuole appartenere? Alla superficie o all’ignoto, a ciò che c’è da scoprire oppure la rappresentazione di un’altra cosa già esistente?  La sua verità si trova sott’acqua, o ha bisogno di ossigeno per andare avanti?

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Dopo dodici anni di lavoro, e prodotto da Bi and Tian (B&T Studio), l’opera cinese finalmente sale in superficie, seguendo la propria marea e carica di mitologia, di citazioni, di riferimenti alla letteratura taoista “Zhuangzi” e altri racconti tradizionali. Nell’universo proposto da Liang e Zhang, ci sono due mondi possibili: quello umano e quello sotto il mare, abitato da esseri con sembianza umana, non dei, non uomini, che regolano il tempo, le stagioni e le maree. Il rapporto tra questi due mondi, però, è unilaterale: mentre gli umani ignorano la loro esistenza, gli “Altri” vengono chiamati a fare una breve visita alla dimensione opposta, come rito di passaggio, con l’unica condizione di non entrare mai in contatto con gli uomini.

Il rovescio avviene sempre con la comparsa di the chosen one. Chun, la ragazza con poteri curativi che nuota controcorrente, alla conquista di una realtà irraggiungibile, di un’unione improbabile che svolga l’ordine naturale delle cose. Spinta da una volontà quasi biblica, profetica, religiosa, che segue canonicamente il percorso da manuale del messia: la negazione, l’avventura, la scoperta, la solitudine, il sacrificio, il riscatto. Una storia come tante, oppure la Storia più frammentata e ripiegata dell’umanità, quella che prende diverse forme, voci, linguaggi e colori ma non perde mai il suo fulcro, riuscendo sempre a portare in superficie un senso di familiarità, di comodità, di già vissuto.

Aggrappandosi con sottigliezza a questa memoria ancestrale, Big Fish &

Begonia ricostruisce una propria versione di mondo e lo fa con genuina bellezza, creando un immaginario mitologico e visivo che stravolge, che confonde l’occhio del miglior modo possibile: stiamo guardando il mare calmo o in movimento, un pezzo di cielo o la profondità dell’oceano? Si tratta di un’onda, oppure delle nuvole? Di una dimensione fisica e tangibile, oppure del suo riflesso? La relativizzazione degli elementi e la loro condizione organica, dell’ordine stabilito della natura (quell'”ordine stabilito” condizionato sempre dallo sguardo antropocentrico), senza però perdere l’essenza del racconto canonico, costituisce il vero atto rivoluzionario del film, che sembra proprio fatto dagli “Altri”. Da quelli esseri indefinibili che hanno il potere di rovesciare il tessuto della realtà con il solo movimento di una mano, sempre nell’anonimato, unica dimensione dove trovano sicurezza, scioltezza, protezione.

Ed è precisamente nell’atto di uscire di questo “anonimato”, nella volontà di catalogarsi sotto uno sguardo antropomorfico, nel confronto con un mondo alieno, parallelo, quando Big Fish & Begonia comincia a perdere la sua potenza naturale. La realtà che circonda il corpo cinematografico, la presentazione, la promozione, l’immaginario esterno al film (creato da loro stessi), di un modo testardo finisce sempre per nominare la figura di Hayao Miyazaki e lo Studio Ghibi, invitando a fare un paragone che più che omaggio o citazione, sembra una sorta di rassegnazione, di sconfitta, il riconoscimento prematuro di un secondo posto. Sì, è pur vero che la presenza dell’immaginario di La città incantata e Il castello errante di Howl o della volontà femminile della Principessa Mononoke e di Nausicaa  a volte si rende troppo evidente. Ma forse sarebbe riuscita a sciogliersi nella fluidità del racconto in modo naturale, per poi formare parte del nuovo tessuto proposto, se non fosse per il meta-messaggio, la minaccia sotterranea che sembra invadere la dimensione protetta degli “Altri”: non si tratta di Miyazaki, ma quasi.

Allora, come catturare il big fish, il pesce rosso, se stiamo cercando nel posto sbagliato? Forse rovesciando noi stessi la visione, confrontandoci con l’immagine come se fossimo all’alba, all’inizio dei tempi, conquistatori di una terra ignota, davanti a un pezzo di carta in bianco dove c’è tutto da ri-scrivere. Dove non importa se siamo sotto il mare, nel cielo o galleggiando in mezzo le onde, e neanche se siamo in grado di riconoscere la differenza. 

 

Titolo originale: Da Yu Hai Tang
Regia: Xuan Liang & Chun Zhang
Origine: Cina, 2016
Durata: 105′
Distribuzione: Draka Distribution

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