#Biografilm2017 – Le sfide morali di Angus Macqueen

Due incontri con il documentarista, che presenta “Ingrid Betancourt – 6 years in the Jungle” e “The legend of Shorty” al festival di Bologna. Cinema che vuole rivelare l’animale che è in ognuno

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Un elicottero sorvola Bologna, di continuo, mentre cortei pacifici si snodano per le strade, marcati dalla polizia: c’è il “G7 Ambiente”, in città, e l’allerta è estrema. Estrema comincia a tormentare anche l’afa, e ci si chiede come faccia, il pasciuto Angus Macqueen, a intabarrarsi nel suo maglioncino nero. Ha una birra in mano, spesso la sorseggia tra un film e l’altro, e presenta due suoi lavori (ve ne saranno altri) in questo weekend trascorso al Biografilm, che lo omaggia in questa 13^ edizione.
Sebbene, per natura, il documentario è, di solito, materia effimera, interrata nel presente, le due fatiche del regista britannico – oggi si può dirlo – non hanno perso smalto e attualità: perché da Ingrid Betancourt – 6 years in the Jungle, che per più motivi è conturbante e che finisce per inghiottire lo spettatore come gli ostaggi in canoa finivano inghiottiti dalla giungla, sono trascorsi sette anni; e perché da The Legend of Shorty ne sono passati tre, di anni. E qualcosa, realmente, da allora è cambiato.
Macqueen, che non a caso è considerato tra i più grandi – e vien da dire coraggiosi – documentaristi dell’ultimo ventennio, fa scuola di questo genere cinematografico, analizzando le due opere, e soffermandosi più attentamente sulla prima: fondamentale è la chiarezza di intenti, quando si imbraccia la camera e si parte per un’impresa; fondamentale è il taglio da scegliere; fondamentale è la chiarezza anche nei confronti di coloro di cui si parla, e che vengono intervistati, perché il lavoro finito non potrà che essere migliore. È molto interessante che il buon Macqueen ricolleghi questa consapevolezza e lealtà (anche verso se stessi) al fatto che appartenga al vecchio ciuffo di registi che non immortalava, come oggi si può fare, con qualsiasi ammennicolo tecnologico. “Fino al 2004 ho girato in pellicola, e la pellicola costava. Perciò, dovevo sapere esattamente cosa stavo per filmare, e quali erano i miei obiettivi”. Eppure, in questi ultimi tredici anni,il suo metodo, che scansa qualsiasi tipo di improvvisazione, non è comunque cambiato.

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Nel caso di The Legend of Shorty, Macqueen non fa che proseguire in un solco di esplorazione che ormai segue da diverso tempo: la guerra sulle droghe. Così analizza la figura di Guzmán detto “El Chapo”, il più grande trafficante di droga al mondo degli ultimissimi anni, messicano, ora estradato negli USA in seguito all’arresto del 2014 dopo una lunga latitanza. Una finta latitanza. Il documentario di Macqueen, che al Biografilm dichiara che la legalizzazione di alcune droghe leggere sarebbe una piccola soluzione al narco-traffico e alle tanti morti che esso comporta in tutti i sensi (muoiono i drogati e muoiono uomini nei conflitti tra cartelli),non è altro che il temerario viaggio del regista e di un suo collaboratore alla ricerca del pericolosissimo El Chapo, convinti della sua facile reperibilità: lo Stato sa dov’è, ma non lo acciuffa, perché fa ancora comodo che resti libero. Proprio quando Macqueen è a un passo dall’incontrarlo, poiché riesce ad arrivare alla madre e ai suoi più fedeli scagnozzi, Guzmán viene arrestato.
Un ritratto, quello del regista britannico, che è quello di “un eroe folcloristico”, come egli stesso dichiara al microfono, “perché le sue gesta sono cantate, e c’è una tradizione musicale su di lui. Così, anziché proporre come colonna sonora del film quelle stesse canzoni, ne abbiamo composte di nuove, ispirandoci al personaggio. Una sfida morale, credo consona per raccontare El Chapo”.

Ancor più stimolante per la comprensione del lavoro di Macqueen è stato, però, Ingrid Betancourt – 6 years in the Jungle, che raccontai 2320 giorni di rapimento della stessa Betancourt e di altri politici e attivisti colombiani, sequestrati da guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), che da decenni, ispirati dalla rivoluzione castrista a Cuba, lottano con le armi, contro il governo, per ricevere un’autonomia politica. Per molti, sono solo dei terroristi che vivono nei meandri della giungla colombiana e la cui tattica più collaudata è catturare, o assassinare, i propri oppositori politici.
Al di là della storia in sé, che il film delinea con precisione e coerenza (tra gli ostaggi c’erano anche americani), Macqueen aveva perfettamente chiaro ciò che voleva fin dal principio: non gli interessava fare un film di indagine, giornalistico, cercando di capire chi dicesse il vero e chi il falso tra questi ex-ostaggi intervistati, di chi fosse la colpa del rapimento, se fosse reale o se fosse una messinscena la liberazione dopo quasi sei anni (afferma che è un discorso che ha portato avanti a livello personale, quello di appurare la verità); non gli interessava, dunque, concentrarsi su chi avesse torto o ragione, e le uniche parti in cui interviene una voce estranea sono quelle puramente informative, che guidano meglio lo spettatore nel ginepraio della delicata situazione colombiana, in Europa ancora oggi abbastanza ignorata.
Nel pieno spirito del Biografilm, Macqueen voleva semplicemente raccontare la vita, a suo

betancourtmodo straordinaria, di queste persone, ricucendo le loro esperienze. E anche mostrare cosa significasse essere degli ostaggi da un punto di vista emotivo ed esistenziale. Egli non compare mai, nel film, né si fa vivo con la voce (abbiamo solo le risposte dei protagonisti che si intrecciano), ma promette ai soggetti del documentario con i quali conversa che i suoi scopi sono quelli, limpidi: narrare le loro biografie, capire cosa si prova a vivere per anni, sequestrati, in una giungla ingrata.
Chiarezza di intenti iniziale significa padroneggiare il proprio lavoro con una profondità invidiabile. E significa davvero chiarezza totale, nei minimi dettagli. Fin dall’inizio, ad esempio, Macqueen aveva deciso che avrebbe evitato, giustamente, la musica: unica eccezione è quando un omaccione,ex-comandante delle FARC, canta un brano; una scena ridicola per più motivi e in cui, quell’intermezzo musicale, è quindi calzante, perché abbozza meglio un personaggio. L’unico suono possibile sarà quello della giungla dove gli ostaggi sono deportati: gli uccelli, i fruscii, l’acqua del fiume. “Non volevo condurre il pubblico in un romantico paesaggio con l’utilizzo della musica”.Tutto molto corretto, perché solo in quel modo sarebbe emersa la spietatezza di quei luoghi, dove tutto è uguale, dove ogni giorno è identico al successivo o al precedente, e dove lievita il senso d’angoscia, solitudine e frustrazione, in quella prigione di alberi senza orizzonte che è la giungla (“piccolo villaggio, ma grande inferno”, si dirà nel film).

Molto singolare, pertanto, è notare come questa trasparenza del regista, questa non-volontà di intervenire e giudicare ciò che riprende, scateni comunque, nello spettatore, una reazione inaspettata: non si prova reale empatia per nessuno degli ex-ostaggi, a nessuno di loro ci si affeziona davvero. Eppure, per il rapimento in sé, per la libertà a loro negata, per le vessazioni subìte, avremmo dovuto abbracciare tutti gli sfortunati protagonisti della storia, potendo, sui titoli di coda. E invece questo non accade. O, se accade, è smorzato, anche quando la Betancourt (definita la “regina” da un altro ostaggio, ad esaltarne in negativo la superbia), in un video-messaggio dalla prigionia inaugura un rosario virtuale con i figli lontani, tutti i sabati alle 12; non accade quando questa Giovanna d’Arco della Colombia apprende la morte del padre, nella giungla, da un giornale nel quale i guerriglieri avvolgono le verdure.
Non c’è vero trasporto e vera commozione, per tanti motivi. Ma basti citare un paio di cause. Clara Rojas è la candidata-vice della Betancourt, e con lei è rapita in quel lontano 2002: tra le due si alzerà un muro di silenzio, durante il sequestro, un muro che dura ancora oggi; ed è molto strano che due “sorelle” che condividono la stessa sorte finiscano per non darsi reciproco aiuto e conforto in quelle condizioni e dopo appena un fallimento di fuga. C’è qualcosa di celato, di non detto, che però rende entrambe ambigue, scivolose, meno perfette. E ancora: proprio Clara Rojas rimarrà incinta e partorirà un figlio durante i suoi anni di sequestro, dopo un rapporto consenziente con un guerrigliero del quale, nel documentario, non farà il nome.
Là, nella giungla, sembrano evadere tutti gli scheletri dagli armadi e sembrano affiorare, al limite delle proprie forze e delle proprie speranze, gli aspetti più oscuri e meno prevedibili delle due donne (ma si potrebbe dire di ogni personaggio). È questo, che ricerca Macqueen: nella condizione estrema di ostaggio, di prigioniero sfinito e consumato dalle piogge amazzoniche,dagli insetti, dalla fame, egli desidera illuminare le debolezze e le incongruenze dell’uomo. O meglio ancora: desidera rivelare l’animale che è in ognuno di noi. Non è impresa facile, ma Angus Macqueen sa come farlo.

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