#Biografilm2017 – Vite danzanti

Loie Fuller, Francesca Alinovi, Simon Fitzmaurice: i ritratti che passano al festival di Bologna raccontano di esistenze votate all’arte fino alle prove più estreme

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12 giugno 1983 – 12 giugno 2017. Sono passati esattamente trentaquattro anni da quando Francesca Alinovi, trentacinquenne di grande fascino, brillante critica d’arte e ricercatrice universitaria, viene barbaramente uccisa nel suo appartamento di via del Riccio, a Bologna, in una calda domenica pomeriggio. Verrà incriminato un giovanissimo artista, suo studente, con il quale aveva intrapreso una misteriosa relazione: Francesco Ciancabilla si professa innocente, fugge per scampare all’arresto inevitabile, è latitante tra Brasile e Spagna per più di dieci anni, poi lo beccano e ammuffisce in carcere per tre lustri. Oggi è fuori, ed espone anche i propri quadri. Fine della storia.
Così vuole Veronica Santi, che di I am not alone anyway – il titolo rielabora una frase scritta con un rossetto dall’assassino sul vetro di una porta – è ideatrice e regista: nell’incontro con la stampa, al Biografilm, si preoccupa che di Francesca Alinovi non si racconti la macabra fine, i moventi, il processo; così come accade nel suo film, desidera che della Alinovi si riveli la sensibilità da critica d’arte, l’acume, lo spirito avanguardistico e anticonformista, la sua bellezza dark, la scrittura penetrante.
Proprio la scrittura è il primo incontro della Santi, classe ’81, con la figura della Alinovi: “Una folgorazione: lessi un suo trafiletto in preparazione di un esame, qui al DAMS di Bologna. Da lì è iniziato il mio interesse per lei”. Da lì, o poco dopo, partono cinque anni di intenso lavoro: parlano di Francesca Alinovi tutti gli artisti che l’hanno conosciuta, soprattutto newyorkesi (la Santi, un po’ scontrosa con la stampa, vive tutt’oggi nella Grande Mela, dove esercita la sua professione di artista dadaista). Ma parlano anche le amiche di scuola e di università, gli amici italiani, la sorella Brenna, in una testimonianza intima e toccante. Parla la stessa protagonista deceduta, nelle superstiti registrazioni audio, con la sua voce flemmatica e sicura.
“Un film durissimo”, confessa la regista al termine della proiezione, “perché è stato difficile entrare in contatto con le persone che la circondavano: Richard Tuttle, artista e anche suo compagno per un certo periodo, si è rifiutato di parlarmi, perché la sua è una ferita ancora aperta e perché preferisce evitare strumentalizzazioni. Ed è stato un film difficile perché difficile è stato trovare il materiale, considerando che sulla Alinovi c’è pochissimo”.
Il film si snoda così tra gli anni universitari, con Francesca che si iscrive a Bologna in lettere moderne pur inserendo nel piano di studi tutti gli esami possibili di arte, e gli anni della piena maturità di donna, in cui emerge la sua forte sensibilità critica, soprattutto per il fenomeno del post-moderno e per la street-art (sono continui i suoi viaggi a New York) o per giovani promesse a cui Francesca Alinovi dà fiducia e sostegno: cura le mostre, scrive articoli, crede in un linguaggio artistico nuovo ed efficace. Il lavoro della Santi, breve e denso nei suoi settantacinque minuti, ci riconcilia, dunque, con una personalità troppo trascurata, appannata da quella stessa morte che ha rubato ogni riflettore a una vita di grande impatto; una vita splendida perché incastonata in un universo culturale e sociale ricolmo di stimoli, in cui si faceva arte “non per denaro, come spesso oggi avviene, ma idealisticamente”, come nel film si afferma.

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Tra gli altri lavori presentati al Biografilm, non spicca Quand j’etais Cloclo dell’italo-svizzero

AlinoviStefano Knuchel: nel ripercorrere la sua stessa vita, e affermando dopo la proiezione che “ogni biografia ha qualcosa di decadente in quanto biografia”, il film di Knuchel non si apprezza se non per qualche sorriso che strappa la stravagante figura materna; nella volontà di ripercorrere con originalità e schiettezza gli aspetti più salienti o divertenti del suo passato, in un doppio piano di realtà-sogno, il regista sfocia in rappresentazioni grottesche e pacchiane, come quando si auto-interpreta da bambino, pur avendo cinquant’anni.
È andata meglio con l’opera prima di Frankie Fenton, dall’Irlanda, che in It’s not yet dark si serve della voce di Colin Farrell per narrare la vita di Simon Fitzmaurice, sceneggiatore di successo che, giovanissimo e già con tre figli, in poco tempo si vede costretto al silenzio e alla totale immobilità per una malattia neurodegenerativa, la MND,molto simile alla SLA. Nel mostrare la forza di quest’uomo indomito, che in condizioni proibitive scrive un libro e dirige addirittura un film grazie a delle pupille puntate su un monitor dal quale comunica, Fenton partorisce un film equilibrato che non capitombola nel patetico e nella pur sempre facile retorica: principalmente, è un film delicato sull’amore che muove ogni cosa; nel caso di Fitzmaurice, sull’amore verso sua moglie e verso i suoi bambini (nelle fasi iniziali della sua malattia ha concepito altri due gemelli).

Il film-bandiera di questo tredicesimo Biografilm è però La Danseuse, dedicato alla danza e che narra di Loïe Fuller: elaborò a cavallo tra ‘800 e ‘900 una ballo tutto suo, composto da larghi movimenti effettuati in un abito particolare e mastodontico. Tramite un innovativo gioco di luci per l’epoca, la Fuller, danzando, si trasformava in una farfalla o in un fiore che sboccia, a seconda dei suoi gesti.
Nel film di Stéphanie Di Giusto c’è anche Gaspard Ulliel, volto centrale nell’ultimo di Xavier Dolan. Ma è la regista a rivolgersi al pubblico bolognese: “Il film nasce da una foto in bianco e nero, magnifica: vi era una figurina con addosso un enorme tessuto lievitante nell’aria, e sotto vi era la scritta La Belle Epoque. Ho scoperto chi fosse la donna della foto e a lei ho dedicato sette anni della mia vita”. A interpretare la Fuller, egregiamente e con tutte le sue energie, è la cantante e performer Soko, all’esordio come attrice e senza controfigure in un film in cui il corpo è messo a dura prova. Scherza col pubblico, Soko, la madrina del Biografilm, dicendo che “il suo viso tappezza tutta la città, ed ora i suoi genitori si sono convinti che sia una persona importante”. Poi si fa seria e invita tutti a non avere paura inseguendo, e magari realizzando, i propri sogni. Proprio come la Fuller. Proprio come se stessa.

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