#Biografilm2018 – Alfabeti

The Alphabet of Peter Greenaway, The Architect of light: Renzo Piano di Carlo Saura, Almost Nothing – CERN: Experimental City e Ceci n’est pas un cannolo di Tea Falco, presentati a Bologna

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Era pronosticabile che in The Alphabet of Peter Greenaway (2018) – opera breve e inaspettatamente briosa e per nulla lineare da un punto di vista tecnico – la moglie regista, Saskia Boddeke, sviscerasse la biografia del marito dalla A alla Z, a mo’ di documentario. E invece quasi niente di tutto questo. È ovvio che Greenaway sia l’epicentro di questo lavoro “familiare”, ma la ragione del film è, in verità, la figlia sedicenne Pip, e il suo rapporto col padre, con i tranelli della sua vita giovane; inoltre, The Alphabet of Peter Greenaway non può definirsi documentario, secondo le parole della Boddeke, in sala al Biografilm, bensì sorta di testimonianza poetica su una speciale relazione padre-figlia; infine, giunta alla lettera G (stranamente di “Greenaway”, non di “God”, ma in sala si scherza perché è un po’ come dire la stessa cosa), alla moglie è venuta noia di seguire con diligenza il limitante ordine alfabetico, dacché il più grande bisogno era quello di toccare temi come l’amore, la religione, il cinema, l’arte. Ed emerge l’arguzia di Greenaway, il suo cinismo e i suoi slanci affettivi, le sue paure (dell’acqua), le sue profezie (si toglierà la vita, forse, a ottant’anni, e ne mancano appena cinque), la mano artistica, il suo ossequio per tutto ciò che è enciclopedico. Emerge, chiacchierando con la stampa, qualche dettaglio sul suo prossimo progetto: vedrà un produttore italiano, in questo soggiorno nella penisola, ed è pronto a girare un film che stuzzica fin dal titolo: “The Marriage of Christ”.

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In anteprima internazionale Carlos Saura, classe 1932, presenta The Architect of light: Renzo Piano (2018), che invero è un documentario che esamina un’opera specifica recente dell’architetto genovese, inaugurata un anno fa, sulla baia di Santander: il centro Botìn. Il processo di creazione è ben delineato, con Piano continuamente protagonista, attento a non sfigurare la costa della città della Cantabria, e a rispettarne il mare e la luce. Ma poco presenti, nel film di Saura, sono le voci discordi (di sicuro esistenti) sull’opera di Renzo Piano, così che troppo peso si dedichi al “miracolo” dell’architettura.
Direttamente nei corridoi del CERN si svolge Almost Nothing – CERN: Experimental City (2018), di Anna De Manincor, che è più interessata a indagare l’aspetto umano, e non scientifico, che percorre le stanze e, soprattutto, la caffetteria di quest’oasi ginevrina. Perché è lì, tra una tazza e l’altra, che sono nate (o naufragate) le più grandi idee delle più

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grandi menti al mondo, come il World Wide Web; le più grandi, ma anche le più bizzarre, come la parodistica girl-band attiva anni fa, Les Horribles Cernettes, che nel film compie una reunion. Ciò che irrimediabilmente colpisce è l’umiltà dei membri del CERN, che lavorano e tentano di scoprire qualcosa che potrebbe essere fondamentale per l’umanità, e tuttavia mantengono quell’atteggiamento di dubbio perenne e di modestia che, in realtà, è l’impalcatura che regge i loro progressi.

Altro lavoro italiano è poi Ceci n’est pas un cannolo (2018), di Tea Falco, nota per l’interpretazione femminile nell’ultimo lungometraggio di Bertolucci (al quale il film è dedicato), Io e te (2012). Il cannolo, simbolo della Sicilia che ospita il film (la Falco è originaria di Catania), in fondo è presenza effimera: spiega al Biografilm che, come Magritte dava alla pipa significati ulteriori, lei vuole darne alla sua isola, spogliandola dello stereotipo della mafia. Ma Ceci n’est pas un cannolo, con andazzo documentaristico malgrado una fotografia cinematografica, è pieno di significati differenti: come quando un Adamo e un’Eva moderni bisticciano sull’entità del frutto (mela o pera), che forse si scoprirà essere melagrana. O come quando, in una specie di esperimento sociologico, la Falco accende la camera e fa parlare i più svariati personaggi siculi (tra cui il padre), a braccio, entrando nelle loro case, in un amalgama di aneddoti e stravaganze, di evidente ispirazione godardiana: come Jean-Luc, Tea Falco lumeggia la Sicilia che non abdica al tritacarne della globalizzazione.

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