Bismillah, di Alessandro Grande

Il cortometraggio vincitore ai David di Donatello 2018 è adesso su RaiPlay: Grande trova nello sguardo intimo una forma per raggiungere il tema della crisi migratoria e le sue sfumature quotidiane

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“Bismillah, Bismillah, in the name of Allah”. La piccola Samira (Linda Mresy) – tunisina di dieci anni – ripete la canzone come un mantra per se stessa e per suo fratello, che ammalato e sdraiato sul letto suda, si lamenta e delira in uno stato di quasi incoscienza. La luce è fredda, l’appartamento sembra un luogo transitorio, un posto dove lei si muove con una certa diffidenza ma facendolo suo, riconoscendo l’ambiente, cercando di ritrovare un senso d’appartenenza. Là fuori, c’è una dimensione ignota: forse si tratta dell’Italia, forse di Roma, oppure qualsiasi città al mondo. Ma per Samira il mondo è lì, tutto dentro quelle pareti rovinate, quella zona sospesa tra giorno e notte, tra pausa e mobilità, tra vita e morte.

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Bismillah, del regista catanzarese Alessandro Grande – fresco vincitore come Miglior Cortometraggio ai David di Donatello 2018 e ora visibile su RaiPlay – trova nel privato una via per prendere il suo pezzo di pubblico, nello sguardo intimo una forma per raggiungere il tema della crisi migratoria e le sue sfumature quotidiane; nel silenzio e nell’introspezione, un modo di ricominciare a vivere dopo la sopravvivenza. Ma la proposta di Grande, sempre attraverso lo sguardo di Samira, è un racconto soprattutto sull’attesa: di una chiamata, di una risposta, del gesto fraterno di qualche vicino di casa, di uno sgombero imminente, di un padre che è partito senza apparente ritorno. In questa attesa, Bismillah si svolge senza fretta, lasciando spazio alla scoperta, dando forma a una delle centomila possibili storie che coesistono a Roma. Le storie di quel popolo “fantasma” che va avanti nella clandestinità e in questa condizione di anonimato possono trovare sia un ostacolo per andare avanti che la loro salvezza.

Come se fosse un personaggio del documentario Castro di Paolo Civati – che racconta la quotidianità di un gruppo di famiglie che occupano un condominio a via Castrense, sotto minaccia costante di sgombro – l’identità di Samira si configura nell’interno, nel rifugio in mezzo a un luogo alieno, nello dinamica dentro a uno spazio protetto dove si possono replicare pezzi di una vita lontana. La sua identità si definisce anche dall’interazione con gli altri, quei corpi che si muovono in una specie di coreografia all’interno della stessa dimensione e che diventano piccole isole dove lei può trovare risposte, aiuto, conforto, ma mai un lieto fine.

Alla fine, l’approccio di Bismillah è anche alieno. I personaggi rivelano chi sono, da dove vengono e dove vogliono arrivare, soltanto nel momento in cui interagiscono con gli altri, con quelli che appartengono da prima alla loro nuova dimensione. Come se, appunto, fossero questi “altri” a definire il loro ruolo momentaneo nella vita, attraverso le loro domande, inquietudini, pretese. Più che rispondere nel modo giusto oppure farsi capire, la vera attesa di Samira, e anche dallo spettatore, diventa quella di sentire una voce famigliare, che provenga dall’interno oppure da fuori campo, che s’esprima con i suoi stessi codici, nella stessa frequenza, che canti la sua stessa canzone.

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