Blackhat, di Michael Mann

 blackhatImmersione in un immaginario-torrent, visione sovversiva della nostra contemporaneità. Versione al contrario di Tron, in cui le strutture su cui si fondano i processi digitali sono esondate nella nostra dimensione. Si dovrebbe viaggiare in modalità stealth, per guadagnare la salvezza, ma non si può scappare dal peso dei numeri. Un'anticipazione dal nuovo numero, in arrivo a brevissimo, di Sentieri Selvaggi Magazine

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CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

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Parli come se fossi ancora in prigione

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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THE OTHER SIDE OF GENIUS. IL CINEMA DI ORSON WELLES – LA MONOGRAFIA

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L'incantatore di serpenti 
Ci sono i cadaveri lasciati sul campo, dopo una delle sparatorie più letali di tutto il cinema di Michael Mann, e l’obiettivo della mdp si abbassa a notare che, al contrario dei corpi dei contendenti oramai esanimi mentre le barelle ne raccolgono le spoglie, lo smartphone di uno di loro è sopravvissuto, incolume, e ancora il suo display è illuminato dalla schermata del gps che va tracciando la fuga del nostro Hathaway. La tecnologia dura più degli uomini, e va avanti di per sé, lontana dai concetti di vita e di morte che segnano i nostri destini. 

L’idea di Blackhat, in qualche modo la questione fondante della poetica di Mann, è quella che ci sia una prigione dalle sbarre invisibili tutto intorno a noi, diremmo wireless, costruita nell’aria stessa che ci circonda, e invalicabile: la tecnologia è il mezzo unico per visualizzare la gabbia, renderla fluorescente, ma solo alcune persone riescono a vedere le connessioni, i collegamenti, i link che formano le pareti a scacchi della cella. Spesso, questi sono gli eroi dei suoi film (Snake Charmer è la canzone di Eagle Eye Williamson che Hemsworth sta ascoltando in cuffia nel momento della sua entrata in scena).
Uno di questi chiaroveggenti della rete è Hathaway, il quale istintivamente sceglierà il nickname Ghostman chattando con il nemico, che invece conosceremo sempre e solo come Sdksdk, anche quando tardivamente il film ne svelerà il volto.
E’ facile allora rendersi conto istantaneamente di come Mann abbia deciso di depurare il proprio film da qualunque appiglio che potesse fare da paletto alla rarefazione assoluta dello sguardo e dell'immagine: ancor più dell'evanescente, spettrale Arcangel de Jesus Montoya di Miami Vice, la sfida tra il protagonista di Blackhat e questo attentatore senza storia nega in maniera totale la dicotomia Hanna/McCauley, o Dillinger/Purvis.
Che cosa resta? Bella domanda, quando anche il momento di sospensione romantico dell'eroe che scruta le onde del mare o i grattacieli intermittenti della metropoli di notte, viene sostituito dal sogno di una fuga davanti alla spianata di cemento, deserta e per nulla evocativa, di un aeroporto. E' lì che l'eterea Lien tocca per la prima volta Hathaway, e resta già poco da dirsi, le decisioni vengono prese in fretta, il ritmo di un paio di battute (il chiarimento in elicottero tra Wang e Hemsworth è un istante vertiginoso), dialoghi secchi e risoluti. Il tempo del suo film, Mann lo perde altrove.

Enter
Da questo punto di vista l’incipit “astratto” di Blackhat è emblematico: come se fossimo in un universo alla Tron, Mann cimostra i ponti di luce che dall’alto dei cieli formano la griglia che ci intrappola, per poi darcene una dimostrazione pratica – come le cascate di dati luminosi si trasferiscono attraverso tunnel e corridoi tra i cavi e i computer, così Hathaway di peso viene sbattuto per terra e trasportato in orizzontale dai secondini attraverso le stanze del carcere in cui è recluso. 
“Enter”, preme in continuazione il dito del letale antagonista sconosciuto.  Per questo è così fondamentale il set ritornante della centrale nucleare, vista davvero come un enorme case per pc a cui si rompe la ventola, e che sprigiona radiazioni – ancora una volta, invisibili e sparse nell’aria, come le informazioni digitali.  L’unica azione possibile è quella di alzare il coperchio e infilarsi tra le macchine impolverate, come succede per recuperare la scheda di memoria del reattore (tra le quattro-cinque sequenze più avanguardiste mai girate dall'autore), e come Hathaway e Lien fanno trovando poi una botola tra le montagne di Jakarta. 

Enter. In questo universo dunque maledettamente compresso, questo cinema va necessariamente scompattato, e infatti la vicenda dell’hacker Chris Hemsworth segue proprio la traiettoria del software craccato, l’unica maniera per sbloccarlo è inevitabilmente illegale, clandestina, fuorilegge.

Ghostman
Al fardello sulla coscienza di aver creato il codice utilizzato poi dal cybermalvagio senza volto come punto di partenza per i suoi attentati informatici (dunque, in qualche modo Hathaway va combattendo contro la sua stessa infallibile abilità di hacker…), l’eroe deve aggiungere quello di aver violato l’intoccabile database di Stato, Black Widow, per cui la sua redenzione è definitivamente negata, la punizione è essere rispediti nuovamente dall’altra parte del confine, a scappare da fuggitivo. 

Il punto è che si dovrebbe viaggiare in modalità stealth, per guadagnare la salvezza, ma non siamo riusciti ancora a rendere il nostro formato così leggero, e non si può scappare dal peso dei numeri, davvero i reali protagonisti di Blackhat (“qui non parliamo più soltanto di 0 e 1!”, urlerà Hathaway faccia a faccia con la sua nemesi).
Zoomando dentro un numero parte la prima giostra di byte laser nell'intro, ed è davanti allo sportello di un bancomat che la vicenda del film si chiude (in mezzo, quelle due cifre pronunciate una volta sola ma pesanti più di tutte, “9/11”, e poi quel grattacielo sfocato negli occhi di Viola Davis…).
Eliminare le protezioni, bypassare le autorizzazioni, infiltrarsi sotto copertura come tutto il cinema di Michael Mann: e se funzionasse?

Il giorno del silenzio
Da quando Hathaway sussurra nella metro a Lien “dobbiamo pensare a sopravvivere”, e lei è in lacrime con la testa tra le mani dell'uomo, il film passa alla navigazione in incognito, ed è una delle vette di tutta la produzione del nostro autore: i due si diranno un'altra decina di parole in tutto, impegnati per una breve sezione in una sorta di versione essiccata di un hoax movie.
E poi, la parata balinese del Nyepi, il “giorno del silenzio”: è qui che Mann chiarisce definitivamente il senso di questa immersione in un immaginario-torrent, visione sovversiva della nostra contemporaneità. Siamo di nuovo in una versione al contrario di Tron, in cui le strutture su cui si fondano i processi digitali (e che Mann mostra come abbiamo detto nell'incipit in computer art) sono esondate nella nostra dimensione.
Nella massa dei peers che segue silente e ordinata la stessa direzione come un torrente, ignara e disinteressata alla battaglia in corso, spuntano i seeders che mantengono il segreto e lo posseggono. Le distanze finalmente si annullano (“vedo se riesco ad essergli il più vicino possibile, il più veloce possibile”), a ferire e penetrare non sono più le pendrive USB ma i coltelli. Il cinema, la vita, l'amore, la morte, come accesso remoto.

Titolo originale: id.
Regia: Michael Mann
Interpreti: Chris Hemsworth, Viola Davis, John Ortiz, William Mapother, Manny Montana, Ritchie Coster, Holt McCallany, Jason Butler Harner, Spencer Garrett, Wei Tang, Brandon Molale, Yorick van Wageningen, Archie Kao
Origine: USA, 2015
Distribuzione: Universal
Durata: 135'

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    Blackhat, di Michael Mann

     blackhatImmersione in un immaginario-torrent, visione sovversiva della nostra contemporaneità. Versione al contrario di Tron, in cui le strutture su cui si fondano i processi digitali sono esondate nella nostra dimensione. Si dovrebbe viaggiare in modalità stealth, per guadagnare la salvezza, ma non si può scappare dal peso dei numeri. Un'anticipazione dal nuovo numero, in arrivo a brevissimo, di Sentieri Selvaggi Magazine

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    Ci sono i cadaveri lasciati sul campo, dopo una delle sparatorie più letali di tutto il cinema di Michael Mann, e l’obiettivo della mdp si abbassa a notare che, al contrario dei corpi dei contendenti oramai esanimi mentre le barelle ne raccolgono le spoglie, lo smartphone di uno di loro è sopravvissuto, incolume, e ancora il suo display è illuminato dalla schermata del gps che va tracciando la fuga del nostro Hathaway. La tecnologia dura più degli uomini, e va avanti di per sé, lontana dai concetti di vita e di morte che segnano i nostri destini. 

    L’idea di Blackhat, in qualche modo la questione fondante della poetica di Mann, è quella che ci sia una prigione dalle sbarre invisibili tutto intorno a noi, diremmo wireless, costruita nell’aria stessa che ci circonda, e invalicabile: la tecnologia è il mezzo unico per visualizzare la gabbia, renderla fluorescente, ma solo alcune persone riescono a vedere le connessioni, i collegamenti, i link che formano le pareti a scacchi della cella. Spesso, questi sono gli eroi dei suoi film (Snake Charmer è la canzone di Eagle Eye Williamson che Hemsworth sta ascoltando in cuffia nel momento della sua entrata in scena).
    Uno di questi chiaroveggenti della rete è Hathaway, il quale istintivamente sceglierà il nickname Ghostman chattando con il nemico, che invece conosceremo sempre e solo come Sdksdk, anche quando tardivamente il film ne svelerà il volto.
    E’ facile allora rendersi conto istantaneamente di come Mann abbia deciso di depurare il proprio film da qualunque appiglio che potesse fare da paletto alla rarefazione assoluta dello sguardo e dell'immagine: ancor più dell'evanescente, spettrale Arcangel de Jesus Montoya di Miami Vice, la sfida tra il protagonista di Blackhat e questo attentatore senza storia nega in maniera totale la dicotomia Hanna/McCauley, o Dillinger/Purvis.
    Che cosa resta? Bella domanda, quando anche il momento di sospensione romantico dell'eroe che scruta le onde del mare o i grattacieli intermittenti della metropoli di notte, viene sostituito dal sogno di una fuga davanti alla spianata di cemento, deserta e per nulla evocativa, di un aeroporto. E' lì che l'eterea Lien tocca per la prima volta Hathaway, e resta già poco da dirsi, le decisioni vengono prese in fretta, il ritmo di un paio di battute (il chiarimento in elicottero tra Wang e Hemsworth è un istante vertiginoso), dialoghi secchi e risoluti. Il tempo del suo film, Mann lo perde altrove.

    Enter
    Da questo punto di vista l’incipit “astratto” di Blackhat è emblematico: come se fossimo in un universo alla Tron, Mann cimostra i ponti di luce che dall’alto dei cieli formano la griglia che ci intrappola, per poi darcene una dimostrazione pratica – come le cascate di dati luminosi si trasferiscono attraverso tunnel e corridoi tra i cavi e i computer, così Hathaway di peso viene sbattuto per terra e trasportato in orizzontale dai secondini attraverso le stanze del carcere in cui è recluso. 
    “Enter”, preme in continuazione il dito del letale antagonista sconosciuto.  Per questo è così fondamentale il set ritornante della centrale nucleare, vista davvero come un enorme case per pc a cui si rompe la ventola, e che sprigiona radiazioni – ancora una volta, invisibili e sparse nell’aria, come le informazioni digitali.  L’unica azione possibile è quella di alzare il coperchio e infilarsi tra le macchine impolverate, come succede per recuperare la scheda di memoria del reattore (tra le quattro-cinque sequenze più avanguardiste mai girate dall'autore), e come Hathaway e Lien fanno trovando poi una botola tra le montagne di Jakarta. 

    Enter. In questo universo dunque maledettamente compresso, questo cinema va necessariamente scompattato, e infatti la vicenda dell’hacker Chris Hemsworth segue proprio la traiettoria del software craccato, l’unica maniera per sbloccarlo è inevitabilmente illegale, clandestina, fuorilegge.

    Ghostman
    Al fardello sulla coscienza di aver creato il codice utilizzato poi dal cybermalvagio senza volto come punto di partenza per i suoi attentati informatici (dunque, in qualche modo Hathaway va combattendo contro la sua stessa infallibile abilità di hacker…), l’eroe deve aggiungere quello di aver violato l’intoccabile database di Stato, Black Widow, per cui la sua redenzione è definitivamente negata, la punizione è essere rispediti nuovamente dall’altra parte del confine, a scappare da fuggitivo. 

    Il punto è che si dovrebbe viaggiare in modalità stealth, per guadagnare la salvezza, ma non siamo riusciti ancora a rendere il nostro formato così leggero, e non si può scappare dal peso dei numeri, davvero i reali protagonisti di Blackhat (“qui non parliamo più soltanto di 0 e 1!”, urlerà Hathaway faccia a faccia con la sua nemesi).
    Zoomando dentro un numero parte la prima giostra di byte laser nell'intro, ed è davanti allo sportello di un bancomat che la vicenda del film si chiude (in mezzo, quelle due cifre pronunciate una volta sola ma pesanti più di tutte, “9/11”, e poi quel grattacielo sfocato negli occhi di Viola Davis…).
    Eliminare le protezioni, bypassare le autorizzazioni, infiltrarsi sotto copertura come tutto il cinema di Michael Mann: e se funzionasse?

    Il giorno del silenzio
    Da quando Hathaway sussurra nella metro a Lien “dobbiamo pensare a sopravvivere”, e lei è in lacrime con la testa tra le mani dell'uomo, il film passa alla navigazione in incognito, ed è una delle vette di tutta la produzione del nostro autore: i due si diranno un'altra decina di parole in tutto, impegnati per una breve sezione in una sorta di versione essiccata di un hoax movie.
    E poi, la parata balinese del Nyepi, il “giorno del silenzio”: è qui che Mann chiarisce definitivamente il senso di questa immersione in un immaginario-torrent, visione sovversiva della nostra contemporaneità. Siamo di nuovo in una versione al contrario di Tron, in cui le strutture su cui si fondano i processi digitali (e che Mann mostra come abbiamo detto nell'incipit in computer art) sono esondate nella nostra dimensione.
    Nella massa dei peers che segue silente e ordinata la stessa direzione come un torrente, ignara e disinteressata alla battaglia in corso, spuntano i seeders che mantengono il segreto e lo posseggono. Le distanze finalmente si annullano (“vedo se riesco ad essergli il più vicino possibile, il più veloce possibile”), a ferire e penetrare non sono più le pendrive USB ma i coltelli. Il cinema, la vita, l'amore, la morte, come accesso remoto.

    Titolo originale: id.
    Regia: Michael Mann
    Interpreti: Chris Hemsworth, Viola Davis, John Ortiz, William Mapother, Manny Montana, Ritchie Coster, Holt McCallany, Jason Butler Harner, Spencer Garrett, Wei Tang, Brandon Molale, Yorick van Wageningen, Archie Kao
    Origine: USA, 2015
    Distribuzione: Universal
    Durata: 135'

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