BlacKkKlansman, di Spike Lee

Un buddy movie in stile blaxploitation con l’urgenza politica del cinema di Lee, in questa stagione di giovani cantori black che gli devono probabilmente tutto. Gran Premio della giuria a Cannes

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Le ultime sortite di Spike Lee, dallo straordinario Chi-raq di un paio d’anni fa alla serie di Lola Darling su Netflix fino a questo nuovo exploit nel Concorso cannense, sembrano portare avanti una sorta di bringing it all back home da parte del più celebre cantore della blackness ad Hollywood, in tempi in cui una certa modalità di racconto da black power sembra innervare il mainstream supereroistico come l’indipendenza smart che si porta i premi a casa, alla Get Out, per non parlare dei nuovi maître à penser dell’industria musicale BAM da Pulitzer e dintorni. Lee pare quasi voler riaffermare il primato sul materiale, anche quando qui cita apertamente i testi sacri della blaxploitation tra Shaft, Superfly e Pam Grier, sia nei dialoghi tra i personaggi che nel mood funky-ciondolante del film: il paradosso è che adesso, per tornare ai suoi joint, Spike abbia bisogno della produzione proprio di quei Jason Blum e Jordan Peele che hanno riportato questo cinema agli Oscar lo scorso marzo.
Dopo i vari tentativi di scarso successo di allontanare il suo immaginario dalla Storia afroamericana, Lee trova dunque così la maniera per tornare ad essere un cineasta rilevante, ripartendo dalle sue origini proprio come fatto in questa stagione con la sua serie online basata su She’s gotta have it.

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Ma per chi si aspetta la grandeur dello Spike Lee più travolgentemente epico e magniloquente, la brutta notizia è che qui il regista porta tutto all’ebollizione giusto nella parte finale, quando ritrovi tutta la sua passione per i montaggi alternati e per l’aggressione bigger than screen alle emozioni dello spettatore, con uno straordinario rimpallo incrociato tra il racconto di un linciaggio più impiccagione pubblica narrato ai partecipanti ad un meeting delle Pantere da un testimone sopravvissuto, e in contemporanea un folle discorso di incitamento alla supremazia bianca al raduno del KKK dopo la visione di Birth of a Nation di Griffith (!), per bocca del gran wizard David Duke. Segue clip d’assalto con immagini di violenze e pestaggi ad opera delle forze di Polizia durante le proteste del Black Lives Matter di questi anni, condite da varie giustificazioni pubbliche da parte di Donald Trump, mentre Terence Blanchard finalmente trasforma in gonfio movimento di strings un tema che sino ad allora era stato quasi unicamente punteggiato da una chitarra elettrica.
Quel tipo di sezione che ti farebbe alzare in piedi sulla sedia, come davanti ad un film di Spike Lee, insomma. Per il resto dell’opera, il cineasta perde tempo con le suggestioni da poliziesco seventies del libro autobiografico del detective afroamericano Ron Stallworth, racconto della sua paradossale attività di infiltrato nel Ku Klux Klan nel 1978-79, cellula di Colorado Springs, e imbastisce un buddy movie tra sbirri cool con la coppia John David Washington/Adam Driver.
Si intuisce quanto in realtà, se la produzione avesse probabilmente fornito più margine, Lee avesse una voglia matta di allargare il discorso sull’attività delle Black Panthers locali e della loro leader Patrice (Laura Harrier, assolutamente pazzesca), perché quando Stokely Carmichael/Kwame Ture fa visita alla sezione ecco che il film si innalza un’altra volta, con tutti quei volti di fierezza resistente che si ergono dal buio ad ascoltare le parole dell’attivista.

E’ vero, Blackkklansman – Gran Premio della Giutia al 71° Festival di Cannes – è un film importante in questo periodo (compresa la sottolineatura cruciale sull’antisemitismo del Klan, non meno violento del loro odio razzista), ma probabilmente e in ogni caso più come afflato ed ispirazione spirituale e formale che a causa del reiterato parallelismo tra la figura di Trump e quella del capo del KKK David Duke: come spesso succede con la modalità del pamphlet militante alla Spike Lee, l’esagerazione grottesca del nemico – qui ad opera di un irresistibile Topher Grace nel ruolo di Duke – potrebbe quasi sortire il risultato di normalizzare l’enorme pericolo rappresentato ancora oggi dai rigurgiti neonazi di organizzazioni e klan vari.

 

Gran Premio Speciale della Giuria al 71° Festival di Cannes

Oscar alla migliore sceneggiatura non originale

 

Titolo originale: id.
Regia: Spike Lee
Interpreti: Adam Driver, John David Washington, Topher Grace, Laura Harrier, Ryan Eggold, Robert John Burke
Distribuzione: Universal
Durata: 128′
Origine: USA, 2018

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
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