Blair Witch, di Adam Wingard

Un’impalcatura istantaneamente “accessibile”, scomponibile alla ricerca di tasselli da rimettere a posto fondamentali per l’esperienza di visione contemporanea che tratta ogni spettatore da utente

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Pochi giorni fa un amico documentarista commentava la sua delusione per Jason Bourne chiosando “la macchina a spalla così nevrotica ormai la usano anche per Masterchef”. Al di là del giudizio estetico sul nuovo dinamitardo exploit di Paul Greengrass, la battuta pone l’effettiva questione su cosa succede ai linguaggi più dirompenti quando la canonizzazione operata sulle forme si sostituisce all’urgenza espressiva di uno sguardo all’origine inedito e in grado di segnare il proprio tempo con forza.
L’importanza straordinaria del quarto Bourne bypassa la familiarità acquisita con il bagaglio visivo di Greengrass, che sembra quasi infatti lucidamente inabissarlo insieme al perno fino ad ora irrinunciabile del target Julia Stiles sacrificata alla rivolta popolare ellenica: e il film a quel punto è libero di poter imbastire una nuova narrazione al femminile (Vikander come prototipo del nuovo femminino hollywoodiano) dove chi non ha confidenza con lo scambio virtuale di moneta (dati, informazioni…) è destinato ad essere raso al suolo come l’antiquata città del denaro, Las Vegas.

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Adam Wingard arriva dal canto suo a riportare in vita la strega di Blair, sepolta fondamentalmente nel 1999, in un 2016 in cui l’utilizzo del POV in prodotti simili ha già perso qualunque dirompenza per farsi metadata di un vero e proprio sottogenere nell’insieme dell’orrore, di fatto alimentato dalla democratizzazione progressiva delle possibilità dell’home movie via GoPro, droni, smartphones ecc, anche se “le videocamere in mini-dv erano molto meglio per le riprese notturne”, si lamenta l’ambiguo blogger del sestetto di malcapitati nel bosco versione 2.0.
Ecco, l’intuizione più interessante del prototipo di Myrick e Sanchez era proprio quella di mettere in pratica il forzarsi a non vedere, pur non potendone fare a meno, tipico dello spettatore del cinema dell’orrore: la poca leggibilità delle immagini mosse, buie e sgranate raddoppiava infatti sulla scena il trucchetto per sopravvivere alla strega, cioé quello di evitare di guardarla, di metterla a fuoco con lo sguardo.
Oggi però il non vedere è un atto sempre più impossibile (si pensi anche solo alle

the-blair-witchultime notizie in cronaca), la capacità di ognuno di poter raggiungere e dissezionare qualunque inquadratura di qualsiasi reperto audiovisivo neautralizza la capacità di nascondersi degli elementi a sorpresa, quelli che non avevi notato nell’angolo (è così infatti che il found footage perde la propria frenesia per farsi immagine fissa, a circuito chiuso, come nei Paranormal Activity).

E allora il nuovo Blair Witch è costretto a trasformarsi in un campionario di easter eggs, ammiccamenti e indizi infilati negli orbs e nei jump cut, tra le scritte sui muri della catapecchia della strega, ora finalmente esplorata in lungo e in largo come in un videogame survival in prima persona: Wingard costrisce un’impalcatura istantaneamente “accessibile”, scomponibile alla ricerca di tutti quei tasselli da rimettere a posto fondamentali per l’esperienza di visione contemporanea che tratta ogni spettatore da eventuale utente in grado intervenire facilmente sul testo.
Tutto questo si traduce in una dispersione assoluta della tensione, nel tentativo di inanellare una sorta di campionario di tutti gli espedienti visivi oggi possibili nell’ottica dell’object trouvé dell’orrore: le vere vittime del film finiscono per essere allora i diversi dispositivi gettati in pasto alle presenze soprannaturali, videocamerine-gps da appuntare al lobo dell’orecchio e quadricotteri incastrati tra i rami. Se la strega è alle tue spalle, l’unica maniera per vederla è farti un selfie.

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