Blog DIGIMON(DI) – L’aura digitale (la visione senza sguardo…)

Dove sono i nostri occhi? Cosa vedono le nostre emozioni? Il brivido della rappresentazione (collettiva), di un’esperienza. Non più l’arte in sè, ma l’arte come esperienza mediatica. Noi siamo dentro la rappresentazione degli altri. Gli altri nella nostra. Guardiamo i quadri attraverso l’occhio digitale e passiamo a quello successivo. L’esperienza della visione diviene un clic. Terminator ha vinto, siamo diventati, definitivamente, macchine per vedere. Dal BLOG DIGIMON(DI) di Federico Chiacchiari

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Una visita al Louvre, anno 2011 secolo XXI, e improvvisamente torna in mente Walter Benjamin, e le sue riflessioni sull’”aura” ne L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. Già perchè, allora, la riproduzione fotografica delle opere faceva venir meno “l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova”. Vicinanza e lontananza dell’opera d’arte, unicità di luogo e di visione, ma il 900, per Benjamin, è un’epoca in cui è forte il bisogno di “rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine”…La fine dell’aura è pertanto la fine della lontananza, ma anche di una sorta di irripetibilità dell’evento della visione, data dall’osservazione nell’attimo fugace in cui l’opera si paventava davanti ai nostri occhi. Ecco come Benjamin definiva l’aura: “Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali.  Noi definiamo questi  ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo”.

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Fine dell’aura, meravigliosa definizione di fine dell’unicità spazio/temporale della visione/fruizione dell’opera d’arte (nell’epoca della sua riproducibilità tecnica). Ecco che la tecnica ha modificato radicalmente la “percezione sensoriale” degli esseri umani.

Stacco. Il 900 è finito da due lustri. Anno 2011, visita al Louvre. Migliaia di persone provenienti da tutto il mondo (molti sono visibili sui social network geolocalizzati come Four Square, e lì a scoprire che, davvero, vengono da tutte le parti del mondo!), si accalcano, fanno la fila e girano per ore il gigantesco Museo parigino. Ma sono tutti armati di qualcosa che fino a qualche tempo fa era riservato ai “professionisti” o agli “amatori”: una macchina fotografica (spesso, è un telefono cellulare). Fino a poco tempo fa i musei vietavano le foto ma oggi è praticamente impossibile fermare questa massa gigantesca di umani armati di macchinette fotografiche. Tutti fotografano le opere d’arte. Tutti. Perchè lo fanno? Perchè fotografare delle opere che su Internet troviamo sicuramente e con grande facilità riprodotte con migliore qualità? Cosa fotografiamo?

L’occhio umano, ormai, è fotografico. Vediamo se siamo in grado di “riprodurre” quello che abbiamo visto. Spesso neppure vediamo più “dal vivo”, semplicemente riprendiamo e osserviamo l’oggetto mediati dal nostro “riproduttore digitale”. Tutti questi corpi protesi verso le opere d’arte sembrano raccontare di un nuovo approccio, quasi “erotico”, alla visione dell’arte. Altro che “Sindrome di Stendhal”, tutta l’esperienza emozionale del Louvre sembra un coito di massa verso l’orgasmica visione del quadro dei quadri: La gioconda. Lì quella che fino a quel momento era una pulsione individuale che spinge tutti a fotografare le opere artistiche, si strasforma in una sorta di “orgia collettiva”, quasi un film porno di massa, dove tutti accerchiano, sgomitando, l’oggetto sublime, non per osservarlo in meditazione, rimiralrlo e catturarne l’emozione, ma per avvicinarsi di più e fotografarlo da vicino. Perchè? Perchè tutti fotografano la Gioconda (magari ingnorando e passando senza neanche girarsi un attimo, il bellissimo “Buona ventura” di Caravaggio…)?

Forse l’Aura, perduta con la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte (che ha permesso di vedere opere lontanissime e inaccessibili alle masse), oggi, con la riproducibilità digitale di massa, sta tornando. Cosa fotografiamo quando fotografiamo un’opera d’arte, al Louvre? Fotografiamo l’attimo. Segniamo il nostro esserci lì, in quel luogo. Dimostriamo al mondo, magari condividendo in tempo reale la fotografia sui social network, che noi siamo lì, in persona, di fronte alla vera e unica opera d’arte, non a una sua riproduzione tecnica. Siamo lì e fotografiamo il momento, l’attimo della nostra visione. Ma non fotografiamo noi, fotografiamo “quello che vediamo”. E non importa se quello che vediamo, una volta riprodotto nelle nostre fotografie, è di una qualità scadente che nessuno apprezzerà. Quel che conta è aver segnato l’attimo della nostra presenza, l’hic et nunc, davanti a quell’opera. Io sono qui, dunque fotografo. Fotografo quelle apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina.

Ecco che la fotocamera diventa una parte di noi stessi. Incapaci ormai di ricordare con i nostri occhi e con il nostro cuore, deleghiamo la nostra memoria e testimonianza alla “memoria digitale” della fotocamera. Guardiamo il quadro o lo schermo del nostro cellulare? Non importa. Non lo sappiamo più. O meglio, non distinguiamo più. Vedere con gli occhi o con lo strumento digitale è, ormai, la stessa cosa. Portiamo perciò a casa la testimonianza di un istante, di quel nostro esserci nel luogo, momento unico e, crediamo, irripetibile. E perciò lo fermiamo con la fotografia. Lo sguardo è mediato per sempre. L’aura è tornata attraverso il nostro sguardo digitale.

Ma dove sono i nostri occhi? Cosa vedono le nostre emozioni? Il brivido della rappresentazione (collettiva), di un’esperienza. Non più l’arte in sè, ma l’arte come esperienza mediatica. Noi siamo dentro la rappresentazione degli altri (anche dentro le loro fotografie, spesso…). Gli altri nella nostra. Guardiamo i quadri attraverso l’occhio digitale e passiamo a quello successivo. Pensando che poi avremo tempo di rivederli con calma successivamente. L’esperienza della visione diviene un clic. Terminator ha vinto, siamo diventati, definitivamente, macchine per vedere.

“La cecità è così nel cuore del dispositivo della prossima “macchina per vedere”, poichè la produzione di una visione senza sguardo può essere soltanto la riproduzione di un intenso accecamento, un accecamento che diventerà una nuova e ultima forma d’industrializzazione: l’industrializzazione del non-sguardo” (Paul Virilio, La macchina che vede)

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