Blog MONTAGGI – Wes Anderson e l’origine della frontalità

L’isola dei cani è uno dei film più “politici” di Anderson. Lo sguardo muto ci interroga, attraverso la fiaba, in questa ossessiva (e malinconica) simmetria e frontalità dei corpi e delle immagini

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Amo la frontalità del cinema di Wes Anderson, o meglio, amo la cura, l’attenzione per la simmetria che attraversa le sue immagini. Basta soffermarsi sull’affiche de L’isola dei cani per rimanere colpiti da questa composizione caleidoscopica di personaggi i cui volti (non musi) sono rivolti verso lo spettatore in una sorta di volto multiforme; volto che interroga muto.

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Il film lavora ossessivamente questo aspetto, riprendendo e amplificando il gusto per la geometrizzazione del mondo che da sempre accompagna le inquadrature del regista americano. Geometrizzazione però profondamente attenta al principio della simmetria. Principio che costituisce il motore compositivo del movimento interno all’inquadratura e tra le inquadrature.

In una sorta di montaggio mentale è possibile associare le forme del cinema di Anderson a quelle di altri registi che in tutta o quasi la loro opera hanno lavorato sul principio di simmetria. Ecco che allora sale alla mente la distribuzione ortogonale dei punti di vista ne I Nibelunghi di Lang, o la frontalità sacrale del cinema pasoliniano (soprattutto nei primi film e in Salò), oppure ancora la geometria gelida e tragica di film come Il conformista di Bertolucci. Oppure, perché non pensare allora alla modernità come forma attraversata dalla continua alternanza tra il rispetto della simmetria e la sua ipertrofia (basterebbe qui il nome di Godard)?

Domande che si susseguono. Eppure rimane, forte, la sensazione che l’ossessione simmetrica di Anderson abbia un’altra origine, più antica (dal punto di vista cinematografico). Ed ecco allora emergere alla memoria la distribuzione simmetrica dei corpi nella slapstick comedy degli anni ’20, Laurel & Hardy che distribuiscono l’azione e la reazione, la torta in faccia e la reazione lenta (lo slow burn, di cui anche Buster Keaton fu uno dei maestri) tra un personaggio e l’altro. È qui che ha origine un pensiero ironico della frontalità, che si accompagna alle forme sacrali o tragiche a cui il cinema ci ha abituato.

C’è di più: la geometria dei personaggi de L’isola dei cani (forse più che nel precedente film di animazione andersoniano, The Fantastic Mr. Fox) si sviluppa attraverso una continua ricerca della profondità di campo (personaggi in primissimo piano e personaggi sullo sfondo, entrambi impegnati in azioni contemporaneamente, o una di seguito all’altra). Oppure, mediante un continuo movimento di macchina laterale, che scopre sempre nuovi porzioni di spazio, nuovi personaggi e nuove situazioni. Anche qui, il modello più evidente è quello della commedia folle e surreale, del comico che destabilizza proprio attraverso l’apparente simmetria del rapporto tra spazi e corpi (impossibile non pensare allora a Tati). O ancora, questa linea orizzontale che scopre la frontalità dei personaggi, non attinge forse a piene mani in quella narrazione pittorica che affonda le sue radici nel medioevo, e che il fumetto ha contribuito a rivificare con operazioni narrative particolarissime, come la versione a fumetti delle Opere di Shakespeare, realizzata nel 2000 da un artista come Gianni De Luca?

 

Nel rapporto tra il primo piano e il punto di fuga sullo sfondo, nel movimento orizzontale della macchina da presa risiede uno specifico potere costruttivo dell’immagine animata, che si rivela così nella sua dimensione fantastica. una dimensione che spesso, in un cinema sempre più “animato” viene dimenticata, messa in secondo piano di fronte al potere mimetico delle nuove tecnologie digitali. Potere costruttivo che in fondo accomuna il passo uno dei film di Anderson a quello di Tim Burton, i cui punti di riferimento affondano le loro radici nell’altra grande origine, quella della forma espressionista del cinema.

Forse anche per questo L’isola dei cani è uno dei film più “politici” di Anderson. Il lavoro sulla forma non ha tanto come scopo recuperare la dimensione fantastica del cinema, quanto ossessivamente scrutare una contemporaneità fatta di recinzioni e ghetti, emarginazioni e nascondimenti. Lo sguardo muto ci interroga, attraverso la fiaba. In questa ossessiva (e in fondo malinconica) simmetria e frontalità dei corpi e delle immagini sta il particolare movimento dell’idea di animazione di Anderson; movimento verso l’origine (del cinema, più che dell’animazione), verso un enigma dell’immagine che continua a riguardarci.

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