Bumblebee, di Travis Knight

Bumblebee ha il cuore stantuffante di un maggiolino e non ancora di una Camaro, e il film si adatta a questa velocità di crociera, con lo stesso respiro di un pomeriggio estivo nei pulviscolari 80s

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Transformers 5 ha talmente pasticciato la continuity delle vicende degli Autobots che ora non resta che tornare indietro, e provare a recuperare quel senso di sospensione magica infuso al primo episodio dal soffio spielberghiano che aleggiava allora fortissimo sull’intero impianto.
La scelta di Travis Knight, sopraffino visionario dell’animazione tra Coraline e Kubo, e qui all’esordio in live action (per quanto la lunga e impressionante battaglia iniziale su Cybertron abbia ben poco di “filmato”), è l’intuizione giusta per ridettare i tempi a questo cinema della trasformazione – e infatti le mutazioni a vista delle macchine in robot si fanno nuovamente intellegibili, e l’azione guadagna una compostezza inedita anche nei pirotecnici passaggi di tre stati nello stesso movimento (aereo-auto-robot).
Bumblebee ha il cuore stantuffante di un maggiolino e non ancora di una Camaro, e il film si adatta dunque a questa velocità di crociera, con lo stesso respiro di un pomeriggio estivo in quella pulviscolare età di passaggio tra il ciglio scosceso dell’adolescenza e il tuffo verticale nelle responsabilità.
Vi sembra un setting familiare? Siamo esattamente negli anni ’80, infatti – e c’è anche una scogliera e un luna park!

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Proprio come accadeva al primo film del 2007, questo Bumblebee ridimensiona la meccanica del cinema come dispositivo domestico portatile, intruso alieno mutante da nascondere in garage fino all’inevitabile disastro in salone, e parla perciò la lingua fondativa di Carpenter, di Joe Dante, ancora di Spielberg, Milius (l’addestramento di Bee al camuffamento in spiaggia sembra un training da surfer sul bagnasciuga…), addirittura stavolta di John Corto Circuito Badham.
Ribadendo come unico omaggio dichiarato e apertamente citato quello del nome che questa generazione sembra aver davvero definitivamente riscoperto come padre putativo, dopo più di un decennio di semi-oblio: quello di John Hughes, oramai tirato in ballo da Marvel e Netflix in maniera reiterata. Ecco, se anche nell’archivio di memoria di un robot che si esprime con frammenti di audio estrapolati dalle voci della radio e dalle canzoni è contenuto il pugno alzato del finale di Breakfast Club, allora siamo finalmente riusciti a passare la nostra storia delle immagini pure attraverso le pulegge dell’inanimato, come una sonda Voyager del cinema.

La playlist degli omaggi cinefili viaggia di pari passo con quella dei riferimenti musicali, Smiths, A-ha, Tears for fears, Oingo Boingo, la straordinaria I can’t drive 55 di Sammy Hagar, sparate dall’autoradio o dal walkman della protagonista Charlie, che ha il broncio giusto per affrontare la propria teenage wasteland familiare e sociale e salvare nel frattempo il mondo senza l’aiuto del militare John Cena (il quale si conferma di nuovo, e consapevolmente, come l’action figure di Mark Wahlberg…). Tanto che l’inseguimento finale con alle calcagna, abbastanza emblematicamente, esercito, Decepticon e l’auto dei genitori, finisce meravigliosamente inceppato proprio dall’ingombrante station wagon di papà.
Al resto pensa il sorriso meraviglioso di Hailee Steinfeld, quando appare: la pop star, classe 1996, conferma qui il percorso di corpo indie da un’altra epoca ma con un’inquietudine magnetica tutta contemporanea, come aveva intuito la Kelly Craig di 17 anni (e come uscirne vivi), quasi una prova generale per il ruolo di Hailee da protagonista di Bumblebee.

Titolo originale: id.
Regia: Travis Knight
Interpreti: Hailee Steinfeld, Pamela Adlon, John Cena, Stephen Schneider, Jorge Lendeborg Jr., Jason Drucker, Ricardo Hoyos, Abby Quinn, Rachel Crow, Gracie Dzienny, Kenneth Choi
Distribuzione: Fox
Durata: 114′
Origine: USA, 2018

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