Byron tra teatro e cinema: Cain, di Marco Filiberti

Si frantumano gli argini tra teatro e cinema. Lord Byron rivissuto più che rappresentato in un cinema dallo sguardo notevole e originale, fisico e astratto, con un impeto romantco e tempestoso

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C’è sempre un’immagine da catturare. Da fermare. Prima che questa sfugga via. Come la successione iniziale di Cain, il nuovo film di Marco Filiberti. Tra parate, manifestazioni, immagini di repertorio. Come se ogni inquadratura, in successione, stia creando un ritmo crescente prima di esplodere.

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Dalla citazione iniziale del Manfred di Lord Byron si entra poi nel luogo della creazione. Un casale nel Senese. Un regista appartato, Bartolomeo Zurletti (Renato Scarpa) che ha in progetto di mettere in scena due opere di Lord Byron, Cain e Manfred. Intorno a lui c’è un gruppo di attori di cui fanno parte anche Alessandro (Luigi Pisani) e Antonio (David Gallarello), uno più solare l’altro più competitivo. Al primo viene assegnato il doppio ruolo di Abele e Lucifero, all’altro quello di Caino. L’equilibrio però si rompe con l’arrivo di un altro interprete, Amedeo (Gabriele Vanni).

Dopo Poco più di un anno fa e Il compleanno, anche Cain è un altro film sul corpo. Si vedono gli esercizi, la sua posizione nello spazio della scena dove il progetto di Filiberti sembra davvero essere quello di abbattere gli argini, i confini tra teatro e cinema. C’è sicuramente la lezione di Visconti, ma nell’apparente solarità sembrano scorgersi anche le tracce di Branagh di Molto rumore per nulla.

CainC’è una consapevolezza di sguardo notevole in Cain, piuttosto anomala nel cinema italiano di oggi. Che fa vedere anche le crepe di un sistema produttivo corrotto, ma non ne fa mai denuncia aperta. Anche se si sente proprio in quell’isolamento del casale nella campagna, dove la rappresentazione, l’arte, diventano prima di tutto un’esigenza autentica che però si scontra con le regole del mercato.

Al tempo stesso Cain gioca sul parallelismo preparazione/rappresentazione dello spettacolo. La parola, la prova, diventa subito dopo la messinscena. Reale, immaginata, sognata. Tutto può partire anche dalla voce fuori-campo di Antonio che poi si trasforma in uno sguardo in macchina. Forse già la soggettiva malata di una percezione della realtà alterata.

Il cinema di Filiberti ha un impeto visivo romantico e tempestoso. Dal cavallo bianco, le nuvole, i riflessi, alle teste che entrano in acqua, squarcio (in)consapevolmente horror che sembra arrivare da La terra dei morti viventi di George A. Romero. Un cinema fisico e astatto. Che fa sentire le diverse temperature emotive e gli stati d’animo più differenti. Dove tra personaggio e attore non c’è tanto identificazione. Ma quasi una specie di vita parallela. Come se il corpo si fosse ancora una volta sdoppiato.

 

 

Regia: Marco Filiberti

Interpreti: David Gallarello, Renato Scarpa, Gabriele Vanni, Luigi Pisani, Lucia Mazzotta, Tanita Spang, Maria Francesca Finzi, Riccardo Cascadan, Daniela Malusardi, Benedetta Origo

Distribuzione: Beppe Attene

Durata: 83′

Origine: Italia 2014

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