CANNES 59 – Come un rumore bianco: "Juventude em Marcha", di Pedro Costa (Concorso)

Questo è cinema in cui sembra manchi il prima e il dopo, c'è solo un lungo e attesissimo attimo. Pedro Costa ci illude, perche' ci fa vedere sempre e ancora: la sua e' una puntigliosa messa in scena, un'ossessiva ricerca del punto dove piantare la macchina, del punto dove il fuori smargini il dentro.

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Il quartiere capoverdiano di Fontainhas, a nord-ovest di Lisbona, dove Pedro Costa ha gia' girato Ossos, non esiste piu'. Era gia' in fase di demolizione durante le riprese di No Quarto da Vanda. Le famiglie sono state trasferite molto piu' lontane in nuovo quartiere, Casal Boba, dove la gioventu' sembra in marcia, dove il film e' stato girato. Ventura (il protagonista) abitava a Fontainhas. In Ossos era un passante, nel presente e' tra i piu' emarginati, solitari, fuori legge. Ventura e' qualcuno senza orizzonti e destino, va un po' dappertutto sempre con la stessa faccia, con lo stesso sguardo rivolto al passato. Sua moglie lo ha lasciato dopo trenta anni di matrimonio, senza motivo. Perduto nel vecchio quartiere e' pronto a trasferirsi nel nuovo appartamento e nel nuovo casermone. Tutti i giovani che Ventura incontra e' come se diventassero tutti suoi figli. Poco a poco, la storia prende vita dalle immagini, il tempo si fa prezioso e il regista supera gli ostacoli della messa in scena, ritrovando la classicita' delle forme e la modernita' delle figure. Girato in video e poi ''gonfiato'' in 35mm, il cinema di Costa e' il trucco che non rappresenta il normale per rappresentare il nulla, che non rappresenta il saggio sulla societa', ma la poesia dell'uomo. Vecchio e nuovo, maestro e infante, nella stessa inquadratura, nello stesso spazio, quello della gioventu' in marcia, del brusio della gioventu' come rumore di fondo perenne, come un rumore bianco di creature e non creatori. Costa e' alieno, lontano dalla realta', imitatore dell'esistenza idea peregrina del muto o terra e polvere che torneremo ad essere. Questo e' cinema in cui sembra manchi il prima e il dopo, c'e' solo un lungo e attesissimo attimo. Attimo senza tregua che scoraggia l'abbozzare previsioni: tutto insieme, il cinema chiede di essere considerato un unico atto, un miracolo mai esaurito in una fiammata. Costa ci illude, perche' ci fa vedere sempre e ancora: la sua e' una puntigliosa messa in scena, un'ossessiva ricerca del punto dove piantare la macchina, del punto dove e' impossibile ricordare e della  forza misteriosa delle cose che vorrebbero farsi ricordare come di quelle che si vogliono far desiderare e amare. Crediamo di scoprire fantasmi e ricordi mentre anche le immagini ci sfuggono: tutto cio' che e' gioco e che e' in gioco, svanisce. Come nel luogo (politico) della coscienza, niente di quello che si mostra e' inventato: ogni cosa e' realmente accaduta e accade senza apparenza. Qualcosa di piu' di un ritratto, di un quadro e la sua cornice: quando Costa blocca il suo sguardo per minuti, il set si espande, squarcia le memorie, lascia aperta sempre una porta da cui uscire o entrare, lascia che l'immagine prenda (il) corpo, come quando uno scultore s'impossessa della pietra e del marmo. Due ore e trentacinque minuti reiterati, fuori e dentro, bianchi e neri, stretti dallo spazio e dilatati nel tempo: come la marcia dell'immigrazione del passato colonialista portoghese, come la marcia dei figli senza padri o dei padri ''deportati''. Il cinema dei perdenti, degli indigeni di altrove, deflagrati dal nulla che va riempito dai sogni e poi coperto dalla terra. Anche il segno cinematografico si ripete ormai, da alcuni film (vedi Ossos e soprattutto No quarto da Vanda), ma e' una ripetizione come un fuoricampo, come la piu' caparbia e sensibile attenzione alle sfumature, ai dettagli infinitesimali di luce, suoni, movimenti del tempo, modulatori delle immagini. Amato da Straub e Huillet, Costa sembra fare cinema per dimostrare con non viviamo nel migliore dei mondi e del cinema possibili, che restano sempre fuori, dalla finestra o dalla sala: il fuori di Costa non e' mai del tutto escluso, esiste e si annuncia, arricchisce e smargina il dentro. E' obliquo ed elegge o rifiuta il nostro sguardo messo a dura prova se rifiuta di coniugare il valore e la densita' del testo con la misura necessaria dell'adattamento visivo.  

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